martedì 30 dicembre 2008

BUON 2010! (...Dimenticate il 2009!)

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Eh si... finanziariamente parlando, Il 2009, sarà (a detta di molti) un anno da dimenticare.
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Capitolo Mutui & Finanziamenti: prima di tutto da gennaio dai “cataloghi prodotto” di molte banche, anche grandi e importanti, spariscono i mutui al 100%. Sarà già un miracolo ottenerne uno al 70-75%.

Nel frattempo aumentano gli spread (ricarico che ogni banca decide di aggiungere al tasso di base quale proprio ricavo) magari non a catalogo o nella pubblicità, ma nella realtà sì.
Maggiorazioni che tendono ad assorbire la diminuzione del tasso di rifinanziamento BCE del 2,5% e l'Euribor in discesa libera e oggi intorno a quota 3,00% dopo avere raggiunto quasi il 6% solo due mesi fa. In pratica il margine di vantaggio è di solo un punto, un punto e mezzo percentuale, facendo risaltare ancora una volta i mutui italiani come i più cari in Europa.

Da dimenticare anche mutui sul lungo o lunghissimo periodo: le banche hanno problemi nell'oggi e non rischiano sul domani. Tra l'altro, le banche italiane pare non siano a rischio crack, anche se un Gruppo ci è andato vicino...

A chi toccherà nel 2009?

Nel 2009 ci sarà spazio per nuovi interlocutori, soprattutto imprenditori edili, capaci di erogare mutui, con finanziarie o banche, insieme all'abitazione. Con questi interlocutori ci vogliono non due occhi aperti, ma almeno un paio in più. Non sarà facile nemmeno trovare case in affitto: o meglio, sarà facile trovarle, ma sempre a prezzi ancora elevati, soprattutto nei grandi centri urbani. Ben vengano le iniziative di enti locali che offrono fondi di garanzia per giovani e giovani coppie.

Chi poi vuole vendere casa, anche perché non ce la fa più a pagare il mutuo, forse dovrà attendere almeno un anno in più. L'Agenzia del Territorio ha evidenziato un calo del 13% delle vendite con previsioni fosche nei prossimi mesi, soprattutto nel settore residenziale (-14,1%). Nelle 10 principali città e nelle rispettive province le compravendite hanno subito una consistente contrazione soprattutto nei comuni minori (-16,7% mediamente) piuttosto che nei capoluoghi (-8,9% mediamente).

E quindi eccoci al 2010, quando si spera che inizi una inversione di tendenza...

Bisognerà attendere il 2010 per vedere realmente scendere i mutui, le bollette di gas, luce, telefono, riscaldamento e conseguentemente le spese condominiali. Se è vero che l'Autorità per l’energia ha annunciato che nel primo trimestre 2009 la spesa su base annua della famiglia tipo diminuirà di circa 25 euro per l’energia elettrica, di 11 euro per il gas naturale e di 115 euro su base annua per il Gpl per riscaldamento, i valori sono, appunto "su base annua" e il vantaggio reale si avrà alla fine dell'anno e quindi dal 2010.

Prendetevi un anno sabbatico nel 2009, se potete, non stressatevi con problemi inerenti la casa, se potete. Pensate soprattutto al lavoro, a tenervelo stretto, se lo avete, a inventarlo se non lo trovate.

Roubini (... conosciuto per le sue previsioni di crisi finanziaria mondiale) lo ha sempre sostenuto: "Non investite nel mattone o nell'oro, ma nel lavoro." In questo nessun risparmio!

I migliori Auguri a tutti voi!


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Fonte: osservatoriofinanziario.com

sabato 27 dicembre 2008

Mutui, i consumatori contro le banche.



Il calo dei tassi di interesse porta con sè una "dote" insperata per le famiglie italiane, un bonus che può arrivare fino a 3.400 euro all’anno. A tanto ammonta il risparmio a vantaggio di chi ha contratto un mutuo a tasso variabile, calcolato fra il momento di massimo rialzo dell’Euribor e il valore attuale.

Secondo le associazioni dei consumatori le banche non trasferiscono però sui clienti tutti i vantaggi della discesa dei tassi di interesse, con l’Abi (Associazione Bancaria Italiana) che ricorda invece come gli spread dei mutui in essere siano fissati dal contratto e quindi impossibili da modificare.

Il picco dell’Euribor a tre mesi è stato toccato il 9 ottobre scorso al 5,39%:
a quei valori la rata di un mutuo da 200.000 euro a 30 anni (a tasso variabile con uno spread dell’1%) aveva raggiunto un massimo di 1.250 euro al mese!

Oggi, dopo 50 sedute di cali consecutivi e l’Euribor sceso al 3,08%, la stessa rata vale 964 euro, con un risparmio di 286 euro al mese, pari a 3.432 euro l’anno.

Se i risparmi sono più consistenti per mutui di lunga durata ed importo elevato, non sono certo da trascurare quelli su mutui a durata e importo minori:
per esempio, su un finanziamento da 100.000 euro a 20 anni il risparmio è di "soli" 129 euro al mese (dai 739 euro di ottobre, la rata è scesa a 610 euro), pari comunque a 1.548 euro all’anno.

Per chi accende un nuovo mutuo, però, rimane l’incognita spread, ovvero la maggiorazione applicata sul tasso Euribor, che varia in maniera decisa da banca a banca. Attraverso le simulazioni di MutuiOnLine, si nota come gli spread applicati su un mutuo da 100.000 euro a 20 anni varino da un minimo dello 0,52% ad un massimo di un +1,39%. Con una rata che di conseguenza può passare da 585 a 631 euro, con una differenza di 46 euro al mese e 552 euro in un anno.

Ed è proprio su questo punto che si concentrano i consumatori:«Le banche continuano a manovrare a proprio piacimento gli spread, che adesso continuano ad aumentare» in modo da «conservare elevati i propri guadagni», dichiarano Adusbef e Federconsumatori, sottolineando che i risparmiatori italiani sono già costretti a «pagare sul mutuo uno 0,54% in più rispetto alla media europea». Alla fine di un mutuo di 100.000 euro a 30 anni, spiegano le sigle, «un mutuatario dovrà pagare 14.000-16.000 interessi in più».

Comunque, gli spread sui mutui in circolazione sono definiti dal contratto e, pertanto, non possono essere oggetto di variazione (se non ristrutturando il finanziamento).

Sui nuovi mutui, invece, l’ABI sottolinea come non sia «incoerente» che in una fase caratterizzata da elevata rischiosità come questa gli spread vengano ritoccati al rialzo: con il crollo della produzione industriale, infatti, aumenta il rischio di fallimento delle imprese e con esso anche quello associato ai lavoratori impiegati nelle stesse, che possono vedere il proprio reddito ridotto a causa della cassa integrazione o addirittura azzerato in caso di licenziamento.

Ricapitolando, per i finanziamenti gia in essere... tranquilli (…ma occhi aperti) e … per i nuovi… provate a spuntare il tasso migliore (Euribor+Spread) valutando diverse offerte (...il bello della concorrenza!).

Bye!

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martedì 23 dicembre 2008

Aspettando la svolta...



Sfere di cristallo spente, poche idee molto condivise per il 2009. Sarà perché di fronte alla spianata dei mercati azzerati dalla bufera — mica finita, i tuoni si sentono ancora — le opinioni non possono che convergere.

Eccole:

- azioni nervose con rischi di ulteriori ribassi e anche di forti rally, ma il ritorno del Toro non sarà immediato.
- Investitori in fila per salire sulla diligenza sicura dei titoli di Stato più solidi, prima che la scure dei banchieri centrali riduca al minimo i rendimenti.
- Bond societari così ingiustamente depressi, tanto da meritare interesse anche da parte degli strategist azionari che li considerano outsider dell’anno.
- Liquidità regina per un altro po’, anche nei portafogli di chi avverte che il crollo dei tassi di interesse (già a zero negli Stati Uniti) costringerà comunque il sistema a tornare verso asset più remunerativi.
Dove ritroveremo l’equilibrio?

Il primo punto fermo — ma lo vedremo bene solo con il senno di poi — sarà il minimo delle Borse. Quello che, secondo le statistiche storiche delle ultime recessioni, precede di tre-sei mesi il baratro finale degli utili prima della ripresa economica. E che apre la strada, si spera anche questa volta, al rientro del Toro in Borsa.

Quando?

Non prima dell’estate, dicono i più. Le azioni, che in Europa prezzano oggi 7-8 volte gli utili dell’anno in corso sono in saldo , ma non abbastanza. Perché tutti si aspettano un ulteriore crollo dei profitti nel 2009 nell’ordine del 30%.

Su quali titoli puntano gli esperti?

Sui difensivi ad alta cedola per i prossimi mesi. I money manager europei intervistati da Merrill Lynch in Europa per il consueto sondaggio mensile nel mese di dicembre dicono di avere in portafoglio un vero impegno solo su cinque settori: telecom, farmaceutici, assicurazioni, utilities, energia.

Ma c’è anche chi pensa di dover già scegliere tra gli industriali sani, quelli che ora soffrono per il gelo della recessione, ma che potrebbero andare forte non appena il mercato decide di anticipare la ripresa dell’economia reale.

Ma l’idea condivisa più originale è l’utilizzo intelligente dell'anomalia corporate bond", le obbligazioni emesse dalle società quotate e non: un terreno difficile — va detto — dove però fioriscono rendimenti a due cifre, a fronte di solidità che in molti casi non meriterebbero di pagare un simile premio al rischio. Dunque, rendimenti elevati rispetto ai governativi privi di rischio. Chi vuole maneggiarli, però, dovrà mettere in conto un incremento del tasso di insolvenza rispetto ai bassi livelli attuali.

L’incognita maggiore per il mercato obbligazionario è quella dei tassi: oggi, scomparsa quasi all’improvviso la paura dell’inflazione, il sistema viaggia a manetta per sconfiggere la deflazione (cioè la caduta "avvitata" dei prezzi).

Dunque...
Borsa in ripresa... ma non prima dell’estate, Tassi sempre più giù, favoriti i Btp medio lunghi. I prestiti societari trovano nuovi fan (ma occhio al rischio)
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Bye!
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Fonte: Corriere della Sera

venerdì 19 dicembre 2008

Crack Madoff (continua)


Bernard Madoff, ex presidente di Nasdaq, rischia di peggiorare una crisi che già è stata ribattezzata come la peggiore dal 1987. Gli hedge fund gestiti da Madoff hanno provocato perdite per oltre 50 miliardi di dollari, gettando pesantissime ombre sui bilanci delle maggiori banche e facendo crollare le borse mondiali. Dopo la crisi subprime, quella delle commodities, del petrolio e del settore automotive, una nuova scure si sta abbattendo sull’economia mondiale.
Il soggetto più coinvolto è il Fairfield Greenwich Group (7, 52 miliardi di dollari), seguito a ruota da altre società finanziarie, fra cui il fondo Optimal di Santander, prima banca spagnola e fra i colossi del credito europeo, con numerose filiali anche in Italia. Le perdite stimate degli spagnoli sono nell’ordine dei 2,5 miliardi di euro. Santander, che gestisce anche il mercato del credito al consumo con Finconsumo, non ha commentato ufficialmente la notizia derivante da oltreoceano. Tutto lascia immaginare che il silenzio sia il preludio a stime ben peggiori di quelle rilasciate ai giornalisti. Infatti è il mondo degli istituti di credito quello ad accusare i colpi peggiori: BNP Paribas valuta un’esposizione per 450 milioni di euro (tramite Natixis), Royal Bank of Scotland per oltre 440 milioni, i nipponici di Nomura per 302 milioni, BBVA per 300, Société Générale per 100, la nostra UniCredit per 75 milioni.
Anche il colosso bancario HSBC accusa il colpo, stimando un’esposizione per oltre un miliardo di dollari. Ma sono tante altri i soggetti implicati in un crack che riporta drammaticamente alla luce il default del fondo hedge Long Term Capital Management (LCTM) che il 23 settembre 1998 ha fatto tremare la maggioranza della finanza mondiale. In effetti, quello che è successo con Madoff Investment ha qualcosa di molto vicino a LCTM. Entrambi i fondi hanno racimolato impressionanti quote da investitori istituzionali, esponendoli poi a speculazioni senza precedenti per rientrare delle perdite patite con la crisi del mercato immobiliare nell’agosto 2007.

Alla fine, tutti i nodi vengono al pettine, in quanto nei mesi scorsi la società Maxam ha richiesto a Madoff LLC la restituzione di un debito per 30 milioni di euro, a cui ha fatto seguito il crollo del castello di carte creato negli anni.

Subito si è pensato che fossero coinvolti solamente i grandi investitori, data la tipologia del fondo, ma secondo un’analisi più approfondita è emerso che il sistema alla base dell’hedge fund si componeva anche i piccoli risparmiatori, anch’essi a rischio.

L’ipotesi più accreditata è quella di un crollo sistemico degli hedge fund, secondo numerosi analisti di Bloomberg. A tal proposito, gli organismi di sorveglianza si sono mossi tempestivamente... I primi nomi celebri sono quelli di Aletti Gestielle Alternative e Pioneer Investment, primari gestori di fondi sul mercato finanziario italiano. Ma l’esposizione del nostro paese deve ancora essere quantificata, dal momento in cui l’indagine di Consob è da considerarsi informale.

Le farà seguito una serie di controlli a tappeto per stimare in che misura le SGR nostrane siano state coinvolte nel crack Madoff...

To be continued...


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martedì 16 dicembre 2008

Crack Madoff



Per quasi 50 anni Bernard Madoff, "Bernie" per gli amici, ha gestito la sua attività di brokeraggio a New York come "family business". E come un affare di famiglia questo settantenne dall'aspetto bonario pensava di concludere la sua onorata carriera prima di consegnarsi alle autorità per quello che potrebbe rivelarsi come il più grande scandalo della storia di Wall Street.

All'alba di giovedì, quando gli agenti federali sono entrati nel suo appartamento nel cuore di Manhattan per arrestarlo, Bernie ha dichiarato candidamente di non avere «spiegazioni innocenti» per giustificare un buco che, per sua stessa ammissione, ammonta ad almeno 50 miliardi di dollari, (per avere un termine di paragone...cinque volte il crack di Worldcom del 2002).

La spiegazione "autentica" è quella che ha fornito lui stesso ad alcuni dei suoi più fidati collaboratori, quando, secondo l'atto di accusa depositato dalla Sec,(la "Consob Americana") li ha chiamati a raccolta per una confessione shock: la sua attività di investment advisory era semplicemente «una gigantesca bugia» dietro la quale si nascondeva la più classica delle truffe, la catena di Sant'Antonio meglio conosciuta negli Usa come il «Ponzi scheme».

La Bernard Madoff Investment Securities, società di cui Madoff risulta essere l'unico titolare, faceva leva su una solida reputazione costruita a partire dal 1960 quando, Bernie, un ex bagnino di Lond Island, si era lanciato nell'attività di brokeraggio. Dieci anni dopo il business andava a gonfie vele, tant'è che la BMSI è arrivata a occupare centinaia di trader, mentre Bernard Madoff aveva saputo ritagliarsi un ruolo di spicco nella comunità finanziaria newyorkese, diventando anche presidente del Nasdaq, il listino tecnologico di cui si vantava di aver accompagnato lo sviluppo negli anni del boom della new economy.

L'attività della sua casa di brokeraggio spaziava dall'attività di negoziazione titoli, fino allo sviluppo di piattaforme elettroniche di trading per azioni e derivati, per le quali aveva avuto come partner le più prestigiose firme di Wall Street, da Goldman Sachs a Merrill Lynch. Nell'83 era sbarcato anche a Londra, diventando uno dei primi membri americani del London Stock Exchange.

Ma i guai sono arrivati dopo, quando il broker, contando sulla sua buona reputazione, decise di inventarsi un futuro nel settore degli hedge fund, ufficialmente come advisor di alto profilo.

Già nel 2001 sulla stampa specializzata erano emersi i primi dubbi per questa nuova attività di Madoff... Dubbi fomentati dai concorrenti che si chiedevano come fosse possibile che lo schema di gestione di fondi dei fondi hedge inventato da Madoff non solo riuscisse a produrre rendimenti costanti dell'ordine del 15% all'anno, ma sorprendentemente indovinasse sempre il timing degli acquisti e delle vendite, ponendosi al contempo al riparo della volatilità.

Come fa?
«...Too good to be true», troppo buono per essere vero, insinuavano i detrattori!

Ma Madoff rispondeva di meritarsi un po' di credibilità dopo decenni di attività sul mercato come trader:
«...La strategia è la strategia - diceva - e i risultati sono i risultati».

Dal 2001 la consulenza per i fondi ha assunto dimensioni internazionali.
...Fino all'inizio di dicembre, quando, pressato da 7 miliardi di riscatti, Madoff ha deciso di gettare la spugna rivelando ai suoi collaboratori quello che avrebbe poi confessato agli agenti dell'Fbi. E cioè che fino ad allora aveva garantito alti ritorni agli investitori utilizzando le somme versate da nuovi clienti, il Ponzi scheme appunto!

Finchè le nuove sottoscrizioni superavano le richieste di rimborso tutto è filato liscio, ma la crisi finanziaria ha fatto saltare il gioco.

In caso di condanna, Madoff rischia fino a 20 anni di carcere. Ora bisognerà vedere quale prezzo pagheranno i suoi clienti.

Gli hedge fund gestiti da Madoff hanno provocato perdite per oltre 50 miliardi di dollari, gettando pesantissime ombre sui bilanci delle maggiori banche e facendo tremare le borse mondiali.... Santander, HSBC, BBVA... e tante altre!

In Italia, UniCredit e Banca Popolare hanno lasciato intendere che i propri bilanci subiranno dei notevoli ridimensionamenti, anche se in misura minore rispetto agli altri paesi.

Il vero problema è che attualmente è quasi impossibile effettuare delle verifiche complete delle esposizioni, dato che giungono voci nuove ogni ora, data la grande diffusione dei fondi gestiti da Madoff Investment nel mondo.

Un crollo che fa comprendere quanto sia ampio il mutamento di un certo modello di finanza.

La fine degli hedge fund? Forse no, ma quello che è certo è che un colpo da 50 miliardi di dollari farà ridimensionare notevolmente un settore!


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Fonte: Sole 24Ore

martedì 9 dicembre 2008

2009: fuga da Milano?




La crisi ha colpito globalmente tutte le istituzioni finanziarie e le conseguenze in termini occupazionali si sono fatte sentire per tutto l’anno in corso e molto probabilmente si faranno sentire anche per quello a venire.

A partire da settembre, settimana dopo settimana, la conta dei tagli ha subito una vertiginosa impennata, che con Citigroup ha aggiunto di un colpo ben 50.000 esuberi, portando a un totale di circa 90.000 le perdite di posti di lavoro su scala mondiale.

La tendenza non sembra arrestarsi con i più recenti annunci di Credit Suisse che taglierà circa il 3% del personale, ridimensionando soprattutto l’investment banking, dopo aver già tagliato 500 posti in ottobre. Misure simili ci sono state anche da parte di UBS e Commerzbank, mentre i tagli di varia entità arriveranno anche in HSBC e Deutsche Bank, che fin ora sembravano meno propense a tali mosse.

Nel tentativo di mantenere i bilanci in equilibrio per fronteggiare la crisi finanziaria, le banche stanno ricorrendo sempre più a riorganizzazioni generali delle loro strutture, che oltre a tagli del personale prevedono anche la chiusura di sedi e uffici dove è possibile.
Purtroppo, l’Italia sembra immancabilmente presente nella lista dei paesi in cui la chiusura è certa.
È un fenomeno cui assistiamo già da qualche mese, basti pensare a casi come quelli di Macquarie e di Kaupthing Bank, realtà estere che hanno completamente dismesso il business in Italia. Senza dimenticare la tedesca Bayerische Landesbank, che oltre a prevedere il taglio di 5.600 posti di lavoro, chiuderà proprio la filiale di Milano, mentre quelle di New York e Londra subiranno ridimensionamenti.

Diverse banche internazionali rivedranno la propria presenza in quei paesi in cui il business non è ancora riuscito a consolidarsi, a vantaggio di quelle realtà geografiche che possono garantire un maggiore contenimento del rischio ed abbassare la probabilità di default.
Quindi, se non siamo proprio a una fuga generalizzata da Milano, molto probabilmente il mercato italiano sarà in futuro curato direttamente dalle sedi centrali fuori Italia, con personale specailizzato e dedicato al nostro paese e dove forse ci saranno delle possibilità di inserimento per chi volesse ricollocare la propria esperienza del territorio nazionale all’estero. La mancanza però di sedi direttamente sul territorio potrebbe avere effetti sull’economia reale in senso generale e la preoccupazione crescente da parte delle aziende è che tutta la struttura del credito rimanga congelata e senza alternative.

Speriamo bene...

Bye!

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Fonte: FinancialCarreer

giovedì 4 dicembre 2008

La BCE procede col taglio dei tassi: -75 bp


Il taglio dei tassi operato dalla Banca centrale europea (Bce) è una notizia che in teoria dovrebbe far sorridere tutte le famiglie con un mutuo a tasso variabile.

L'abbassamento di 75 punti base del costo del denaro, dal 3,25% al 2,5%, può infatti comportare un sensibile risparmio: per ogni 100mila euro presi a prestito, la rata mensile si abbatterebbe in media dai 25 ai 41 euro (-2,4%/-7,9%) in base alla durata del finanziamento, con un impatto ovviamente maggiore sui prodotti più lunghi. L'effetto si somma a quelli (più o meno di doppia entità) già ottenuti grazie ai tagli dei due mesi precedenti (a inizio ottobre il tasso ufficiale era ancora al 4,25%).

Nella pratica, tuttavia, le cose non stanno esattamente così, almeno non ancora: i mutui variabili indicizzati al tasso di rifinanziamento della Bce non sono ancora disponibili per i risparmiatori e i prodotti tradizionali sono invece agganciati ai tassi Euribor. Questi ultimi sono sì in calo (oggi il tasso a un mese è sceso ancora al 3,33%, quello a 3 mesi al 3,67%), ma si adeguano gradualmente al taglio e occorrerà quindi un po' di pazienza (settimane, forse un mese) per vedere un effetto complessivo di tale entità.

Il Decreto anti-crisi appena varato ha chiesto alle banche di affiancare a partire dal primo gennaio 2009 mutui indicizzati al tasso Bce ai tradizionali prodotti basati sull'Euribor. In questo modo le famiglie avranno la possibilità di agganciare le rate a un valore meno volatile e (al momento) significativamente inferiore.

Per valutare l'effettiva convenienza occorrerà tuttavia vedere come gli istituti bancari applicheranno la norma: il precedente Bpm, che ha già presentato un mese fa l'Euromutuo agganciato al tasso Bce, non sembra essere incoraggiante. Come visto anche nel precedente post, il ricarico applicato dalla banca (spread) è di 150 punti base, quindi mediamente più elevato rispetto a quanto praticato sui prodotti Euribor (110 punti base, secondo le stime della relazione tecnica che accompagna il Decreto).

Il Mutuo Bce, dunque, sarebbe interessante fintanto che la forbice Euribor-Tasso ufficiale resta elevata.

A questo punto la speranza per le famiglie con mutuo a tasso variabile e che tale differenziale si mantenga ampio... in caso contrario, magari nel lungo termine... la scelta di agganciare il mutuo al tasso BCE potrebbe risultare meno conveniente sotto l'aspetto finanziario.

Staremo a vedere...

Bye!



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lunedì 1 dicembre 2008

Con l'Euribor il rischio si scarica sui clienti...



L'Euribor, il tasso a cui è agganciata la gran parte dei mutui a tasso variabile, sta scendendo ancora.
Scende si ma... non come dovrebbe! C'è qualcosa che non va: la Bce ha tagliato dello 0,75%, l'Euribor a 3 mesi è sceso dello 0,12 e quello a un mese dello 0,15. Certo, si tratta di un tasso di mercato (quello a cui le banche si scambiano il denaro tra loro), quindi non c'è niente di automatico ed è assai probabile che continuerà a scendere nel prossimo futuro. Però persino il presidente della banca centrale, Jean Claude Trichet, ha ritenuto di dover fare un richiamo in materia: "Ci aspettiamo che le banche facciano il loro dovere".

Certo, le prossime rate dei mutui scenderanno, ma è assai probabile che finché non saranno del tutto passate le turbolenze della crisi finanziaria (e ci vorrà parecchio tempo, mesi se non anni) l'Euribor si manterrà sensibilmente al di sopra dei tassi ufficiali, come lo è stato, a livelli che raramente si erano visti in passato, per tutto quest'ultimo periodo, come si può vedere dal grafico.

Ed è corretto?

Che non sia corretto se ne sono convinti ormai anche i banchieri centrali... suggerendo di legare i mutui ai tassi fissati dalla banca centrale, e lo ha ripetuto nel suo discorso alla Giornata del risparmio il governatore di Bankitalia Mario Draghi.
(Una banca che ha raccolto l'invito c'è già, la Banca Popolare di Milano: offrirà un mutuo indicizzato al tasso Bce maggiorato di 1,5 punti (quello che in termine tecnico si chiama spread di 150 punti base).
Beh, lo spread è più ampio rispetto a quelli di mercato... ma è ancorato al tasso ufficiale della BCE (come vedremo più avanti, questo comporterebbe un maggior rischio per le banche e ... udite udite... minore per il cliente!)

Conviene?

Adesso sì, perché l'Euribor come abbiamo visto è molto più alto del tasso Bce, e anche all'Euribor le banche aggiungono uno spread!
Ci sono però due osservazioni da fare:
1) si sarebbe ancorati a un parametro più stabile, perché la Bce non cambia i tassi tutti i giorni;
2) se qualche altra banca deciderà di fare concorrenza alla Bpm chiedendo uno spread più basso, si potrà sempre (San Bersani...) cambiare il mutuo con quello alle condizioni più favorevoli.

Ma perché le banche utilizzano questo parametro e sono così restie a cambiarlo?
A prima vista sembrerebbe un discorso semplice:

la banca, per prestare il denaro a chi chiede il mutuo, lo "compra" a sua volta sul mercato interbancario, e lo spread non sarebbe altro che il "ricarico", la remunerazione dell'operazione.


In realtà non è proprio così...
Perché le banche raccolgono denaro anche attraverso altre vie, ed essenzialmente due:
- i depositi dei correntisti;
- l'emissione di obbligazioni che vengono poi vendute sul mercato.

Ora... una delle regole auree del credito è che il debito che fa la banca a fronte del prestito che concede dovrebbe avere lo stesso ordine di durata. Ossia un prestito a lungo termine (come il mutuo) dovrebbe essere coperto con un indebitamento ad altrettanto lungo termine (...tra l'altro, questa era la scusa che le banche mettevano avanti per imporre forti penalizzazioni in caso di estinzione anticipata dal mutuo!)

Oggi, essendo stato adottato il modello della "banca universale" la raccolta degli Istitituti du Credito non avviene in maniera specifica (per questo o per quell'obiettivo), basta che alla fine vengano rispettati determinati parametri globali che riguardano il patrimonio e gli impieghi.

In sintesi... le banche, per erogare i finanziamenti:
- utilizzano i soldi dei depositi, che sono a costo quasi zero;
- fanno provvista sul mercato interbancario, pagando appunto il tasso Euribor che dunque varia ogni giorno in relazione alla domanda e all'offerta;
- ...e soprattutto emettono obbligazioni.


Allora... perché l'Euribor per i mutui?

Proprio perché è il tasso più "ballerino": le altre forme di raccolta hanno costi più stabili.

In questo modo il rischio di mercato (cioè il rischio di impennate del costo del denaro interbancario, che non è necessariamente quello che serve per finanziare i mutui, ma che comunque la banca utilizza) viene interamente scaricato sul cliente.

Del resto, lo stesso comportamento viene adottato per le imprese, i prestiti alle quali (sempre secondo i dati Bankitalia) sono per il 95% a tasso variabile, mentre all'estero questa quota è sensibilmente più bassa.

Dunque, basare i mutui sul tasso Bce significa, per la banca, assumersi un rischio maggiore: è per questo che richiede un premio (lo spread) molto superiore, circa il doppio di quello ormai più diffuso sul mercato.
Però, come dicevamo sopra, da una parte il debitore corre meno rischi (...e di rimanere imprevedibilmente in bolletta a causa di impennate come quelle degli ultimi tempi); e dall'altra, si può sperare che la concorrenza faccia il suo mestiere, facendo arrivare sul mercato prodotti meno cari.

Aspetto vostre considerazioni!


Bye!


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Fonte: repubblica.it

giovedì 27 novembre 2008

Università, in decreto al Senato entrano norme "anti-baroni"


Nel decreto legge sulle disposizioni urgenti sulle università all'esame del Senato entrano nuove regole stringenti per l'avanzamento di carriera dei docenti universitari e sul finanziamento delle università sulla base di parametri di qualità.

Il decreto-legge 180, varato dal consiglio dei ministri lo scorso 6 novembre è stato licenziato oggi dalla commissione Cultura al Senato ed è all'esame dell'aula.
Per il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini il provvedimento, che impone anche una linea di "tolleranza zero" verso le università con i conti in rosso, è una vera "svolta" nel sistema accademico italiano.
"Per la prima volta le carriere dei docenti non saranno legate a scatti automatici ma - come previsto dagli emendamenti approvati in commissione - al merito e alla ricerca effettivamente svolta", ha detto il ministro in una nota.

Le politiche sull'istruzione portate avanti dal governo hanno provocato forti proteste da studenti e docenti di scuole e università, che sono scesi in strada per diversi giorni con cortei e sit-in.

Tra le novità negli emendamenti approvati oggi in commissione, vi è anche quella che se i docenti non procederanno nell'attività di ricerca saranno esclusi dagli scatti biennali, dalle ripartizioni dei fondi Prin per la ricerca, dalle commissioni per il reclutamento delle strutture accademiche.

I docenti avranno l'obbligo di pubblicare l'elenco delle loro attività di ricerca scientifica in una apposita "anagrafe dei professori", mentre i rettori, in sede di approvazione di bilancio, dovranno pubblicare i risultati dell'attività di ricerca, della formazione e del trasferimento tecnologico all'università.

I fondi saranno destinati agli atenei in base ai meriti ed alla qualità della ricerca e della didattica.

Sembrano belle notizie ma... ricordiamoci che siamo in Italia! Fatta la legge...

Incrociamo le dita!

Bye!

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Fonte: Reuters

martedì 25 novembre 2008

Il piano di Obama


Senza dubbio il piano economico del neoletto presidente degli Stati Uniti Barack Obama segna un cambiamento profondo nell’approccio alla crisi dei subprime.

Finora gli interventi dall’Amministrazione Bush e del titolare del Tesoro Usa Henry Paulson hanno, infatti, puntato sul salvataggio diretto del sistema finanziario, mentre Barack Obama ha incentrato la propria campagna elettorale e il proprio programma sull’economia reale e sul consumatore statunitense.

Sicuramente le due fasi sono complementari e probabilmente ugualmente necessarie, tuttavia un deciso cambio di prospettiva fra le proposte repubblicane e quelle democratiche è innegabile... e segna, in pratica, la fine dell’era economica di Bush.
Con una inversione di marcia netta il ministro dell’Economia a stelle e strisce dichiara che il piano da 700 miliardi di dollari non includerà più l’acquisto di "asset tossici", ossia di quei titoli in varia maniera collegati ai mutui subprime che Washington aveva prima deciso in qualche maniera di "coprire" o comprare direttamente.
Se, infatti, l’ammontare del piano Paulson rimane invariato, le destinazioni dei fondi previste sono invece cambiate profondamente. L’attenzione dello Stato si sposta dai giganti di Wall Street all’economia reale, ai consumatori, ai mutuatari in difficoltà, alle famiglie americane, ai ceti medio bassi e a quegli stessi mutuatati ad alto rischio – il popolo dei suprimer – che sono all’origine della crisi.

Ma qual è esattamente la ricetta economica di Barack Obama?

Per quanto riguarda lo stremato mercato dei mutui americani il piano democratico prevede di scongiurare il pericolo di 2 milioni di pignoramenti ai danni di famiglie e lavoratori in difficoltà che rischiano comunque di non salvare i bilanci delle banche che hanno erogato i mutui in questione. Per affrontare questo problema le misure in cantiere sono molteplici. È previsto un fondo da 10 miliardi di dollari che vada in sostegno di questi "risparmiatori a rischio", vengono annunciati degli incentivi fiscali che favoriscano maggiormente i ceti medio-bassi, sono progettati dei cambiamenti al Chapter 13 della legge sulla bancarotta che al momento sembra orientato più in favore delle società che erogano i mutui che dei mutuatari. Sono infine previste anche delle nuove norme che rendano più chiari, trasparenti e confrontabili i vari mutui presenti sul mercato per evitare che si verificano delle nuove frodi ai danni dei consumatori.
Gli interventi promessi da Obama si allargano, però, a scenari ancora più ampi e agli stessi redditi dei ceti a rischio. Se si considera che circa il 70% del Pil americano deriva dai consumi delle famiglie che mostrano una flessione senza precedenti e che minacciano nuovi disastri nell’ambito delle carte di credito, si comprende subito che questa nuova attenzione al popolo americano è in qualche maniera necessaria.
Obama promette una politica fiscale più "equa" e crediti d’imposta da 500 dollari a lavoratore e da 1000 dollari a famiglia.
L’attenzione si sposta sul lavoro e il progetto "Making Work Pay" promette la cancellazione totale delle tasse per circa 10 milioni di lavoratori degli Stati Uniti, nuovi incentivi al credito al consumo, specialmente se finalizzato all’istruzione e sostegno alle famiglie, alla maternità, ai pensionati con introiti inferiori ai 50 mila dollari annui.

Il piano dell’ex senatore dell’Illinois non si ferma, però, sulla gente, ma ambisce a rilanciare l’economia tramite il duplice mezzo di un sostegno diretto alle imprese e il lancio di un nuovo piano di infrastrutture pubbliche negli Stati Uniti.
In particolare Obama prevede di investire circa 150 miliardi di dollari in un piano ultradecennale a sostegno dell’industria statunitense puntando sull’ambiente, sulle energie rinnovabili e sulla creazione di nuovi posti di lavoro.
Fin qui giungono le promesse economiche del nuovo presidente degli Stati Uniti che ha fatto della guerra alla crisi il cardine delle sue strategie. Quanto un’economia in ginocchio e un debito pubblico Usa portato dal piano Paulson oltre il 70% del Pil statunitense a una cifra con 15 zeri consentiranno di realizzare... è davvero un’incognita!

Obama si è circondato di esperti di economia fra cui membri della Sec (la Consob Usa), ex presidenti della Banca centrale americana, ex ministri dell’era Clinton e manager di prima linea (come l’amministratore delegato di Google Eric Schmidt e il presidente di Time Warner Richard Parson).
Tutti pronti a partire... Obiettivo: il salvataggio dell’economia a stelle e strisce!
Bye!
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martedì 18 novembre 2008

Il decreto Gelmini (Seconda parte)


LISTE E SORTEGGI

Su un punto, però, il decreto appare in palese contraddizione con lo spirito meritocratico che intende promuovere nelle università, premiando per la prima volta i comportamenti virtuosi (nella gestione di bilancio).
Lo stesso articolo 1 va infatti a modificare una tantum le procedure di reclutamento del personale universitario, sostituendo alle commissioni locali elette su base nazionale delle commissioni sorteggiate da una lista unica eletta su base nazionale, per un numero triplo dei membri richiesti.
Si consideri a titolo esemplificativo il caso delle discipline economiche: http://reclutamento.miur.it/bandi.html)

Tagliando corto... Complessivamente, un professore ordinario di economia politica ha una probabilità su quattro di trovarsi a essere commissario in un concorso di prima fascia. Per i concorsi da associato, gli stessi numeri diventano nove decimi come probabilità di essere eletto nella lista e tre decimi come probabilità di finire commissario in un concorso di seconda fascia.

Sommata alla precedente, perché nulla impedisce di essere estratti in entrambe le valutazioni comparative, ogni professore ordinario ha più di una probabilità su due di fare il commissario in qualche concorso. Ovviamente, le probabilità crescono significativamente nei casi delle discipline in cui il numero degli eleggibili è inferiore al fabbisogno delle commissioni.

Il destino quindi dell’accademia italiana nei prossimi sei-otto mesi sembra essere quello di fare concorsi a caso. Si obbietterà che questo non è colpa del nuovo sistema riformato, ma solo dell’eccessivo numero di concorsi banditi dalle università.
È falso, per due motivi.
Il primo è che a parità di numero di concorsi il fabbisogno di professori ordinari commissari è aumentato, essendo stati esclusi i professori associati da questo compito.
Il secondo è che nel sistema che è stato abolito coesistevano incentivi, positivi o negativi, a fare il commissario. Gli incentivi positivi nascevano dalla disponibilità di molti docenti universitari onesti, che richiesti di far parte di commissioni di docenti par loro, erano pronti, e in alcuni casi persino contenti, di partecipare alla selezione dei candidati più meritevoli. Gli incentivi negativi nascevano dalla disponibilità di docenti interessati (o succubi) a scambiare la loro partecipazione come commissari di un concorso di cui fossero predefiniti gli esiti in cambio di favori di un qualche tipo da riscuotere in futuro.
Il nuovo sistema ha cancellato la possibilità di entrambi i comportamenti. Il docente onesto si rifiuterà di partecipare a una commissione di valutazione, venendo a mancare la garanzia della compresenza di persone oneste a par suo. Il docente disonesto non può più offrire la sua partecipazione compiacente, in quanto ha una probabilità molto più ridotta di finire nella sede per la quale si auspicava il suo operato.
I concorsi, ammesso e non concesso che si riescano davvero a formare le commissioni, diventeranno un vero terno al lotto, senza avere alcuna garanzia di svolgimento maggiormente meritocratico.

Si ha l’impressione che per colpire la parentopoli dell’università italiana, intento nobilissimo e pienamente condivisibile, si sia inventato un marchingegno così complicato da rendere (intenzionalmente) impossibile ogni calcolo di convenienza, non solo dal punto di vista dei commissari ma anche da quello dei candidati. Non dimentichiamo che i candidati non hanno fatto domanda ovunque, ma soltanto in un massimo di cinque sedi, dove probabilmente ritenevano di avere qualche chance di conseguire una idoneità, sulla base di principi meritocratici. Correttezza avrebbe voluto che il nuovo sistema allargasse per loro la possibilità di presentare domande anche in altre sedi, riducendosi di fatto la probabilità di una selezione meritocratica.
Se il ministro Gelmini non ha fiducia nell’accademia italiana, al punto che per punire una parte di comportamenti opportunistici è disposta a far saltare alla radice l’intero meccanismo di reclutamento, allora forse era meglio una soluzione proceduralmente molto meno onerosa: estrarre a sorte i vincitori da un elenco di potenziali candidati, purché questi soddisfacessero alcuni requisiti minimali: avere un dottorato, aver scritto e pubblicato qualcosa. La qualità media di questa selezione non sarebbe molto diversa da quella che il nuovo sistema sarà in grado di produrre.

Bye!

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lunedì 17 novembre 2008

Il decreto Gelmini (Prima parte)


Il decreto legge n. 180 del 10 novembre 2008 recante “Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca” ha introdotto alcuni cambiamenti importanti nella normativa sulle politiche di gestione delle risorse umane.
Cerchiamo di chiarire insieme qualche passaggio...

Lo spirito che ispira la manovra è complessivamente condivisibile, perché
1. rompe il principio del trattamento uniforme delle università
2. va incontro alle proteste studentesche che hanno caratterizzato la vita universitaria di molte sedi in queste settimane.

1. L'articolo 1, disposizioni per il reclutamento nelle università e negli enti di ricerca, prevede infatti il blocco del reclutamento di ricercatori e docenti per gli atenei che superino il tetto del 90% delle spese di personale in rapporto al fondo di finanziamento ordinario. Le stesse università non potranno usufruire dei fondi aggiuntivi previsti dalla Finanziaria 2007 per gli anni 2008-2009.

Viceversa, per le università che hanno contenuto la spesa del personale al di sotto del limite fissato del 90% è previsto un allentamento del blocco del turn-over: dal 20 al 50% della spesa del personale uscito nell’anno precedente, con l’ulteriore doppio vincolo che almeno il 60% delle risorse così liberate sia riservato alle assunzioni di ricercatori e che al massimo il 10% delle stesse sia riservato alle assunzioni di professori ordinari.
Bene!
...Tuttavia, in molti casi si tratta di una potenzialità più virtuale che reale, in quanto molti atenei che attualmente soddisfano il tetto di spesa, sono in realtà molto vicini al limite, e in assenza di finanziamenti aggiuntivi a copertura degli adeguamenti obbligatori, sono esposti al rischio di superamento.

Il principio della differenziazione di trattamento delle università sulla base del loro comportamento pregresso ispira anche l’articolo 2: misure per la qualità del sistema universitario.
Esso prevede infatti che una quota non inferiore al 7% del finanziamento ordinario e dei fondi straordinari venga ripartita sulla base di risultati legati alla attività didattica (“qualità dei risultati dei processi formativi”), alla attività di ricerca (“qualità della ricerca scientifica”) e all’uso efficiente delle risorse utilizzate (“la qualità, l’efficacia e l’efficienza delle sedi didattiche”).
Bene!
...anche se la declinazione concreta degli indicatori che permetteranno di misurare questi aspetti è rinviata a un decreto ministeriale da emanarsi entro fine anno.

Il terzo articolo, disposizioni per il diritto allo studio universitario dei capaci e dei meritevoli, incrementa di 65 milioni l’edilizia per residenze studentesche e di 135 milioni le borse di studio, precedentemente ridotte in Finanziaria, riducendo contestualmente i fondi per le aree sottoutilizzate.
Bene!
Su un punto, però, il decreto appare in palese contraddizione con lo spirito meritocratico che intende promuovere nelle università, premiando per la prima volta i comportamenti virtuosi (nella gestione di bilancio). Lo stesso articolo 1 va infatti a modificare una tantum le procedure di reclutamento del personale universitario, sostituendo alle commissioni locali elette su base nazionale delle commissioni sorteggiate da una lista unica eletta su base nazionale, per un numero triplo dei membri richiesti.

Interessati... magari entriamo nel dettaglio nel prossimo post.

E cmq, l'obiettivo di questo blog è quello di informare, capire e confrontarsi... dunque, spirito critico! Sotto a chi tocca!

A presto

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domenica 16 novembre 2008

G20: ok a piano azione per ridare fiducia a mercati

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''Un piano d'azione concreto e preciso per ristabilire la fiducia'': e' quanto hanno convenuto i paesi del G20, che si sono dati tempo fino al 31 marzo prossimo per elaborare ''una lista iniziale delle specifiche misure da prendere , incluse le azioni prioritarie'' per rilanciare la crescita e stabilizzare i mercati.

Ecco di seguito i punti principali del comunicato.

PIU' COOPERAZIONE: ''Siamo determinati a rafforzare la nostra cooperazione per rilanciare la crescita mondiale e raggiungere le necessarie riforme nel sistema finanziario globale''. ''Gli sforzi'' per sostenere la crescita e stabilizzare i mercati devono proseguire'', si legge nel comunicato, dove si precisa che ''significative azioni'' per stabilizzare i mercati e sostenere l'economia sono gia' state prese. ''Ma c'e' bisogno di fare di piu' per stabilizzare i mercati e rilanciare la crescita''.

RILANCIARE CRESCITA: ''Per affrontare il deteriormaneto delle condizioni economiche, servono politiche di ampio raggio, basate su una piu' stretta cooperazione economica''. Per il rilancio della crescita dovremo: continuare nei nostri sforzi e assumere le azioni necessarie per stabilizzare il sistema finanziario; riconoscere l'importanza del sostegno che puo' arrivare dalle politiche economiche e fiscali; utilizzare misure fiscali per stimolare la domanda nazionale; aiutare i paesi emergenti e in via di sviluppo e in questo contesto il ruolo del Fmi e' ''importante''; assicurare che Fmi e Banca Mondiale abbiano le risorse sufficienti; incoraggiare la Banca Mondiale e le altre banche dedite allo sviluppo a utilizzare tutta la propria capacita' per sostenere l'agenda dello sviluppo.

MERCATI FINANZIARI: Il G20 ha convenuto sulla necessita' di ''proposte concrete per la sorveglianza, la trasparenza e la regolamentazione dei mercati''. NUOVO INCONTRO: I leader del G20 si sono accordati per un nuovo incontro entro il 30 aprile al fine di verificare la messa in atto dei principi convenuti. A questo secondo vertice, che si svolgera' probabilmente a Londra, ne seguira' un terzo che, secondo quanto ha affermato il presidente francese Sarkozy, si svolgera' in Italia.

PIU' PESO A PAESI EMERGENTI IN FMI: I capi di stato e di governo del G20 hanno convenuto di accrescere la rappresentativita' dei paesi in via di sviluppo sia nel Fondo Monetario Internazionale sia nella Banca Mondiale. Piu' in generale il G20 e' convenuto sulla necessita' di rivedere le strutture nate da Bretton Woods.

CHIUDERE DOHA ROUND ENTRO ANNO: Il G20 chiede che sia raggiunto un accordo entro l'anno sul Doha Round.
Commenti...

BUSH: Il presidente americano, al termine del G20, ha detto che gli Stati Uniti hanno rischiato di essere colpiti da una depressione ancora peggiore della Grande Depressione. ''Un incontro non puo' risolvere da solo i problemi di una crisi mondiale''. ''Questo puo' essere solo il primo passo in una serie di incontri'', ha detto ancora il presidente americano sottolineando che I leader del G20 hanno concordato di ''coordinare e modernizzare'' i loro sistemi finanziari per fronteggiare la crisi economica. Bush ha detto, parlando al termine dei lavori, che le maggiori economie del mondo ''riesamineranno le regole che governano la manipolazione dei mercati e i tentativi di frode''.

DRAGHI: IN FUTURO FINANZA CON PIU' CAPITALE E REGOLE ''Si conferma la linea del rapporto del Fsf di aprile: il sistema finanziario del futuro dovra' avere piu' capitale e meno debito, piu' trasparenza e piu' regole''. Lo ha detto il governatore della Banca d'Italia e presidente del Financial Statbility Forum, Mario Draghi, commentando, a margine del vertice, le questioni delle regolamentazioni del G20.
''Chiara divisione del lavoro fra il Financial Stability Forum e il Fondo Monetario Internazionale, secondo le linee indicate nella lettera congiunta'', ha spiegato Draghi, sottolineando la richiesta ''di allargare la composizione del Fsf per ampliare la legittimita' della raccomandazioni''. ''Si conferma la linea del rapporto del Fsf di aprile: il sistema finanziario del futuro dovra' avere piu' capitale e meno debito, piu' trasparenza e piu' regole'', aggiunge Draghi, spiegando che e' stata avanzata la richiesta ''al Fmi e al Fsf di un grande programma di lavoro, nel campo della sorveglianza per il Fmi e della regolamentazione per il Fsf. Parte di questo impegno - ha detto - e' gia' oggetto di lavoro da parte del Fsf''.

Dopo le parole... largo ai fatti!

Bye!

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venerdì 14 novembre 2008

I dati confermano che l'attuale rallentamento, o recessione, non è solo un episodio congiunturale ma, almeno per l'Italia, è la continuazione di un trend negativo di crescita che ha cominciato a manifestarsi dalla metà degli anni Novanta.

Dopo il 2000, l'incremento del Pil è trainato solo dall'aumento delle ore lavorate totali. La produttività mostra un andamento declinante nel biennio 2006-07. In contrasto con le molte illusioni sulla rinnovata capacità di innovare delle imprese italiane.

Con raro tempismo, in coincidenza con l’annuncio che l’economia italiana è in recessione, l’Istat pubblica ventiquattro tabelle che aggiornano le informazioni sulla crescita aggregata e settoriale dell’economia italiana fino al 2007. Alcuni dei dati più importanti sono riassunti nella tabella 1 riportata sotto.

La tabella riporta dati relativi a tre periodi particolarmente significativi nell’attuale congiuntura, per l’economia italiana e per l’industria in senso stretto.

Nella prima colonna, si trovano i dati sulla crescita del Pil, delle ore lavorate, del Pil per ora lavorata per il 2006-07, un biennio in cui la congiuntura economica positiva aveva fatto ben sperare molti.

Nelle colonne (2) e (3) sono invece riportati i dati medi per periodi di tempo più lunghi, in modo da confrontare l’andamento delle variabili depurando il più possibile dall’effetto delle oscillazioni cicliche.

CONFERME DAI DATI

I dati della tabella confermano alcuni fatti noti sulla crescita economica italiana. L’attuale rallentamento o recessione non è solo un episodio congiunturale ma, almeno per l’Italia, è la continuazione di un trend negativo di crescita che ha cominciato a manifestarsi con evidenza più o meno a partire dalla metà degli anni Novanta.

Nella tabella, i dati del 1992-2000 ci sembrano dati da età dell’oro: +2 per cento di crescita del Pil e della produttività. Ma sono in realtà numeri assai più bassi di quelli registrati in Italia nei decenni precedenti. In questa luce, la ripresa 2006-2007 appare come una “ripresina”: nel 2006-07, anni in cui probabilmente l’economia italiana ha fatto meglio della “sua” media, il Pil è infatti cresciuto come nell’intero periodo 1992-2000, periodo che include anche la recessione del 1993. Vuol dire che la crescita sostenibile di lungo periodo per l’economia italiana è oggi probabilmente non lontana dall’1 per cento annuo.

La tabella ci indica anche che nel tempo è cambiata la natura del processo di crescita dell’economia italiana. Nel 1992-2000, la crescita del Pil era uguale alla crescita della produttività del lavoro (Pil per ora lavorata), a sua volta per due terzi indotta da una crescita della produttività totale dei fattori, cioè della rozza misura dell’efficienza che i macroeconomisti sono in grado di calcolare con i dati aggregati disponibili. Dopo il 2000, e anche nel 2006-2007, la crescita del Pil è invece solo trainata dalla crescita delle ore lavorate totali.

Infine, piuttosto sorprendentemente, il dato sull’importanza esclusiva dell’andamento delle ore lavorate per la crescita del Pil vale anche per l’industria nel suo complesso. Tutto ciò è in contrasto con molte delle osservazioni sentite negli ultimi anni sulla rinnovata capacità di innovare delle imprese italiane nel biennio 2006-07. Se le imprese hanno ripreso a innovare, questo dovrebbe tradursi in buoni dati sull’andamento della produttività nel settore industriale. Invece, vediamo che la produttività mostra addirittura un andamento declinante nel biennio.

O i dati Istat sono gravemente sbagliati oppure la buona o eccezionale performance di qualche impresa italiana ha in questi anni nascosto problemi di non poca entità per la maggioranza delle altre. In ogni caso, temi di grande rilevanza per la politica economica.

Bye!

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Fonte: LaVoce.it

mercoledì 12 novembre 2008

Crisi finanziaria: quali soluzioni?


Cosa fare nell'immediato per far fronte alla crisi finanziaria, in particolare per la realtà italiana? Condivisibile il piano di emergenza varato dai governi europei e dal governo italiano, soprattutto la scelta di articolare gli interventi per rassicurare i risparmiatori mediante garanzie sui depositi e norme che consentano al ministero dell'Economia la ricapitalizzazione di banche con inadeguatezza patrimoniale e di concedere garanzie alle banche per ottenere liquidità in situazioni di emergenza.

LA SITUAZIONE DELL'INTERBANCARIO

Pur se si stanno già osservando degli effetti benefici (l'Euribor scende) è possibile che le misure adottate non siano sufficienti per riavviare alla normalità il mercato interbancario.
L'Euribor è infatti ancora troppo elevato rispetto al tasso di rifinanziamento presso la Bce e il mal funzionamento del mercato interbancario crea ripetute carenze di liquidità in un sottoinsieme non trascurabile di banche e eccedenze in altre. Eccedenze di liquidità che, per timore di default della controparte, vengono depositate presso l'eurositema anziché essere scambiate con chi ha deficienze. Di qui l'elevato spread dell'Euribor rispetto al tasso di rifinanziamento presso la Bce e la necessità di ripetuti e crescenti rifinanziamenti di importo molto elevato da parte della banca centrale, con il conseguente emergere, per gruppi significativi di banche, di carenza di titoli collaterali.
Non si sono però ancora presentate in Italia situazioni di insolvenza come quelle osservate negli altri paesi europei, mentre il problema della deficienza di liquidità perdura e si trasmette all'economia reale tramite le restrizioni del credito e gli effetti dell'Euribor a tre mesi sui tassi bancari a breve e sui mutui a tasso variabile.

PERCHÉ LE MISURE PRESE POTREBBERO NON ESSERE SUFFICIENTI

Le recenti misure adottate dal ministero dell'Economia con i decreti legge n. 155/08 e 157/08 potrebbero trovare un limitato utilizzo a causa della loro dichiarata applicazione in "gravi crisi di liquidità" e alla conseguente riluttanza delle banche di dichiararsi in grave crisi. Quindi potrebbero non concorrere alla normalizzazione dell'interbancario. I

COSA SI PUÒ FARE?

Nasce da qui la proposta forse prefigurata nel discorso del governatore della Banca d'Italia del 31 ottobre scorso, che le banche centrali nazionali modifichino le regole dell'interbancario concedendo garanzia diretta alla controparte che offre liquidità sull'interbancario.
Coordinando le garanzie dello Stato ai prestiti delle banche centrali nazionali, i prestiti di collaterali e la valutazione delle banche centrali nazionali sulla adeguatezza patrimoniale del sistema bancario nazionale, le banche centrali nazionali potrebbero assegnare adeguate linee di garanzia.

Ciò porterebbe a due benefici effetti: in primo luogo, a una normalizzazione dell'interbancario riducendo gli interventi centrali. Secondariamente, si potrebbe ridurre l'attuale avversione delle banche a ricorrere agli strumenti eccezionali di ricapitalizzazione statale perché si attenuerebbero i timori negativi sulla liquidità dell'annuncio di intervento.

Il rischio è di fornire elevati incentivi di moral hazard che possono però essere limitati se questa misura è momentanea e viene regolamentata in maniera precisa la successiva uscita dello Stato dalle banche e nel contempo viene rapidamente avviata la riforma delle regole del sistema finanziario per un ritorno ben regolato alla liberà di mercato.

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Bye!

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Fonte: Lavoce.it

venerdì 7 novembre 2008

Il sistema bancario europeo si è salvato (almeno per ora...)


Dunque, il sistema bancario europeo si è salvato (almeno per ora...) dal collasso grazie a un intervento concertato degli Stati membri dell’Unione Europea, deciso in un summit urgente dell’Eurogruppo, con la partecipazione del Regno Unito.

Uno degli aspetti chiave dell’evoluzione del mercato bancario europeo dopo l’introduzione dell’euro è stata la tendenza alla concentrazione. Nella maggior parte degli Stati membri, le cinque banche principali rappresentano oggi la quota preponderante delle attività, e questi campioni nazionali si sono evoluti in grandi gruppi bancari integrati su scala internazionale. Paradossalmente, si tratta di gruppi che sono “troppo grandi per fallire”, ma anche “troppo grandi per essere salvati” da un qualunque singolo governo nazionale.

In ogni caso, se la capitalizzazione di tutti questi istituti fosse stata adeguata, la loro crescita internazionale non avrebbe di per sé contribuito alla crisi attuale. Ma grazie alle condizioni monetarie e finanziarie favorevoli del primo decennio di vita dell’euro, i regolatori nazionali hanno consentito ai grandi gruppi bancari europei di aumentare eccessivamente la leva finanziaria. Ciò ha messo in difficoltà le banche europee proprio nel momento in cui le condizioni finanziarie generali si sono improvvisamente deteriorate.

La situazione è tuttavia molto diversa da paese a paese.

I dati di seguito spiegano come le attività delle prime cinque banche inglesi rappresentino più di tre volte il Pil del Regno Unito, mentre quelle delle prime cinque italiane sono “solo” 1,3 volte il Pil del paese (questo spiega perché il governo inglese abbia insistito affinché gli altri Stati membri adottassero politiche simili alle proprie per la salvaguardia delle banche).

Prime cinque banche per Stato membro

Stato Attivi / PIL (%)
Francia 293
Germania 165
Italia 131
Regno Unito 313

Fonte: dati Bankscope.

Anche il grado di esposizione immediata delle banche alle turbolenze dei mercati, che si può approssimare con l’inverso del capitalization ratio (il rapporto tra capitale proprio e attività totali), cambia considerevolmente tra paesi. In Germania, le banche sono poco capitalizzate rispetto al resto d’Europa, con solo 2,5 euro di capitale per ogni 100 euro di attivo. La capitalizzazione delle principali banche italiane è circa il triplo: 7,4 euro per 100 di attivo.

Stato

Own Equity / Attivi (%)
Francia

3.5
Germania

2.6
Italia

7.4
Regno Unito

3.9


Ma le differenze vanno oltre: la deregulation degli ultimi decenni ha prodotto ovunque una espansione delle attività bancarie e para-bancarie, anche se non dovunque con la stessa intensità.
Il grafico mostra come negli anni Settanta-Ottanta il comparto dell’intermediazione finanziaria costituisse una piccola parte dell’economia, tra il 4 e il 5 % anche negli Stati Uniti. Quello che si osserva in seguito è una divaricazione: la quota dell’intermediazione finanziaria sul Pil raddoppia fino a raggiunger quasi il 9 % negli Usa, mentre è stazionaria in Italia e Germania, dove rimane sempre tra il 4-5 % del Pil.

L’intermediazione finanziaria ha potuto crescere così tanto per via della deregolamentazione, che tra l’altro ha consentito ad attori non bancari di svolgere funzioni tipicamente bancarie, spesso senza dover sopportare gli stessi vincoli regolatori. Al tempo stesso, le banche si sono dedicate ad attività diverse dal passato: di seguito vediamo come le grandi banche francesi e tedesche abbiano destinato ai prestiti una quota minore dell’attivo, mentre in Italia la quota restava attorno al 60 per cento.

Stato
Prestiti / Attivi (%)
Francia
29
Germania
23
Italia
61
Regno Unito
44

Fonte: dati Bankscope.

Naturalmente, non tutta la “nuova finanza” è da rigettare: ad esempio, l’Italia è rimasta indietro nel venture capital, con una raccolta di circa 2 miliardi nel 2004-06, rispetto ai 3 della Spagna, ai 5 della Francia ed ai 18 del Regno Unito (di cui nulla per la fase di start-up: si veda la tavola 2).

Flussi di investimento di Private Equity (2004-2006)

Fonte: European Private Equity & Venture Capital Association

Il sistema para-bancario è finalmente emerso in questa crisi, e ha mostrato la sua rilevanza ‘quantitativa’...Ma gli eventi dell’ultimo anno mostrano che è molto fragile .

Nel prossimo futuro, il settore finanziario si dovrà progressivamente ritirare entro i confini del sistema bancario in senso stretto. E nell’ambito del sistema bancario si tornerà alle attività tradizionali: raccolta di depositi, protetti da garanzie pubbliche, e prestiti al settore reale, ovvero imprese e famiglie. Il settore finanziario si contrarrà in alcuni paesi europei, come il Regno Unito e forse l’Irlanda, ma molto meno in altri, Italia inclusa.

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Alla prox!

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Fonte: www.lavoce.it

venerdì 24 ottobre 2008

La crisi Islandese...



Il collasso islandese degli ultimi giorni non ha precedenti nella storia, almeno in tempo di pace, in quanto a rapidità e profondità.

Le quote delle ipoteche e di altri prestiti sono raddoppiate, i prezzi sono cresciuti più del 30%, quasi tutti i risparmi sono andati in fumo, gli stipendi sono congelati e si prevedono licenziamenti di massa. L’Islanda è la prima vittima del credit crunch, e il suo catastrofico collasso dimostra l’importanza delle misure atte a contenere la crisi per evitare che quel che è successo nell’isola artica possa trovare spazio anche in altri paesi.

Gli economisti sostengono che un ruolo fondamentale nel tracollo islandese sia stato giocato dalla sua banca centrale. Il paese ha perseguito una politica monetaria basata sulla fissazione di un’inflation target, simile a quella posta in essere dalla Banca Centrale Europea. Questa strategia implica un aumento dei tassi di interesse quando l’inflazione si spinge al di sopra del target, e un taglio del costo del denaro in caso contrario. Una politica di questo tipo può risultare appropriata per le aree monetarie grandi, come l’eurozona, ma nel caso della minuscola Islanda ha prodotto risultati disastrosi perché ha alimentato enormi flussi speculativi di divise e forti incentivi all’indebitamento in divisa estera per i nuclei familiari locali.

In virtù di tale processo, la divisa locale ha subito un rapido apprezzamento, dando agli islandesi una falsa illusione di ricchezza. Il risultato finale si è concretizzato in una bolla speculativa, con un tasso di cambio sempre più lontano da quello che sarebbe stato dettato dai fondamentali economici del paese, fino al momento in cui è arrivata l’inevitabile esplosione della bolla e la drammatica svalutazione della divisa.

Un ulteriore elemento negativo è stata la dimensione del settore finanziario.

Le banche islandesi possedevano attività e passività denominate in valute estere per un ammontare dieci volte superiore al Pil del paese. In circostanze normali questo non dovrebbe costituire un problema, anche perché le banche locali presentavano ratio migliori rispetto ai diretti competitors europei ed una minore esposizione al rischio. Tuttavia, nell’ambito della crisi attuale, la solidità dei bilanci non è l’aspetto più importante.

Quel che realmente importa è la garanzia implicita o esplicita che un governo può offrire alle banche per far fronte ai propri debiti e soddisfare il bisogno di liquidità. Pertanto, la dimensione dello Stato rispetto a quella del settore bancario costituisce un elemento fondamentale.

La causa del collasso della corona islandese va ricercata nell’intento disperato degli speculatori di porsi in salvo in un momento di incertezza.

Ma decisamente penalizzante è stata l’inadeguata risposta britannica alla crisi del sistema bancario dell’isola. Il governo di Londra ha utilizzato la legislazione antiterrorista per rifarsi sugli assets delle banche islandese che godono di buona salute. Gordon Brown ha minacciato ripetutamente di confiscare tutte le attività islandesi in Gran Bretagna, senza fare distinzione tra assets statali, bancari e personali (appartenenti a persone che nulla hanno a che fare con la crisi). L’autentica tragedia è l’impatto sulle famiglie islandesi.

Tuttavia... la presenza di risorse naturali e di una popolazione molto ben istruita sono fattori che dovrebbero consentire all’Islanda di guardare al lungo termine con una certa dose di ottimismo.


mercoledì 17 settembre 2008

Due pesi e due misure...


Soldi pubblici per Fannie e Freddie e ricerca di un cavaliere bianco per Bear Stearns, mentre Lehman Brothers viene abbandonata al fallimento.

Due pesi e due misure e un segnale contraddittorio nella ricerca di un equilibrio tra i bisogni di stabilità del sistema finanziario e i limiti all'intervento pubblico. Ma il perimetro del rischio si è drammaticamente allargato e bisogna mettere in campo nuovi strumenti per far fronte agli shock di liquidità. Soprattutto, definire criteri oggettivi per individuare chi salvare e secondo quali modalità, per dare certezze al mercato.

Bisogna rassegnarsi: nonostante le polemiche sul fatto che alla fine a pagare sono i contribuenti, e che così facendo si corre il rischio di privatizzare i guadagni socializzando le perdite, Fannie e Freddie andavano salvate: le interconnessioni con i mercati sono tali che un’insolvenza avrebbe avuto conseguenze disastrose, e non solo perché le obbligazioni sono finite nei portafogli di grandi investitori istituzionali e di molti operatori internazionali che avrebbero immediatamente sfiduciato tutto il sistema finanziario statunitense. Fannie e Freddie, infatti, hanno anche rapporti con moltissime banche regionali statunitensi impegnate nel settore dei mutui, e non ci si può permettere in un settore già duramente colpito dalla crisi dei subprime un effetto a catena dalle conseguenze imprevedibili, non solo sulle banche, ma anche sui mutuatari.

Il segretario al Tesoro Paulson ha fatto bene quindi a intervenire, e ha fatto bene a non aspettare troppo tempo: uno dei problemi della Northern Rock, l’altro grande salvataggio degli ultimi tempi nel Regno di sua Maestà, è stata proprio l’esitazione delle autorità, accusate dalla successiva indagine parlamentare di essersi letteralmente “addormentate”, generando le ormai note e traumatiche file dei depositanti davanti agli sportelli. Probabilmente, le autorità dovranno fare un serio esame di coscienza sulle evidenti carenze nei controlli, dovute anche a un sistema di vigilanza talmente frammentato da mostrare enormi carenze.

Ma Fannie e Freddie rappresentano, nel panorama delle crisi, una novità.

Finora, infatti, il salvataggio pubblico era esclusivamente riservato alle banche per tutelare i risparmiatori e per evitare la trasmissione dell’insolvenza da un istituto all’altro. Ma Fannie e Freddie non sono banche, ma intermediari che comprano mutui e si finanziano con l’emissione di obbligazioni: sono state salvate lo stesso perché il pericolo che dopo il primo crollassero tutti i mattoni del mercato, era reale.

Anche Lehman non è una banca commerciale, ma di investimento. Henry Paulson ha però deciso di non intervenire, lasciandola al suo triste destino, con un comportamento diverso da quello seguito per Bear Stearns, dove invece si era abbondantemente foraggiato l’arrivo di un cavaliere bianco pronto a comprarsi la preda in default senza perderci troppi soldi.

La ragione è semplice: non si vuole lanciare il pessimo messaggio che qualsiasi cosa succeda il salvataggio pubblico è comunque assicurato e che fallire è impossibile, altrimenti più che del pericolo di “azzardo morale” si potrebbe cominciare a parlare di libero azzardo che uccide il libero mercato.

Due pesi e due misure, quindi, e un segnale contraddittorio nella ricerca di un equilibrio tra i bisogni di stabilità del sistema finanziario e i limiti all’intervento pubblico.

Come uscirne?

È fin troppo evidente la lezione delle vicende oltreoceano: il perimetro del rischio si è drammaticamente allargato e pensare a gestire le crisi con gli strumenti classici utilizzati per le banche, come l’assicurazione ai depositi e il prestatore di ultima istanza, è ormai pia illusione.
Bisogna inventarsi meccanismi attenti non più a singole categorie di intermediari che raccolgono risparmio tra il pubblico, ma a tutto il mercato e mettere in campo nuovi strumenti per far fronte agli shock di liquidità. E, soprattutto, definire criteri oggettivi per individuare chi salvare e secondo quali modalità, per dare certezze al mercato.

In un articolo di qualche giorno fa l’Economist parlava di Fannie e Freddie come di un “inquietante precedente”: una volta iniziato con i mutui perché non le carte di credito e il credito al consumo? E perché allora non General Motors o la Ford?

Appunto. Bisogna tirare una linea, tracciare nuovi confini: è questa la imprevista e difficilissima sfida che attende Autorità di vigilanza e banche centrali.

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Fonte: lavoce.it

venerdì 8 agosto 2008

L’oro blu è diventato il nuovo petrolio, il business è stellare!


La domanda d’acqua potabile nel mondo è raddoppiata negli ultimi vent’anni, i consumi sono cresciuti con un tasso superiore all’aumento della popolazione.

Forniture, infrastrutture, ma anche strumenti finanziari.

S’investe su tutto ciò che è legato alla parola «water». IShares, il fondo di Barclays, ha recentemente lanciato il primo Etf europeo di settore (iShares S&P Global Water). Altri Etf sono quotati a Wall Street e gli indici di riferimento rendono bene: il Palisade Water il 7%, il First Trust Ise Water il 14,5%.

Un capitolo a parte meritano le acque minerali: un business nel business. Zenith International, società di consulenza, stima che nel 2011 il mondo ne berrà 250 miliardi di litri (l’Italia, già oggi, vanta la leadership nei consumi, con 360 litri procapite l’anno).

La corsa è aperta.
In campo ci sono i grandi competitor, in primis Nestlè Waters, Danone, Coca-Cola, Pepsico.
La guerra è sui volumi, ma anche sul titolo di «best water», la miglior acqua da mettere a tavola.

Una peculiarità sulla quale puntano in tanti, e che che vale anche una piccola follia (marketing a parte), come quella di «imbottigliare» un ghiacciaio. E’ la scommessa di Isbre Holding Corporation, una società di Montvale, nel New Jersey, che sta dando l’assalto agli scaffali americani ed europei con la «Isbre water», acqua minerale che commercializza come «la «migliore del mondo», forte delle analisi della Groundwater Analytical Inc., che l’ha attestata «purissima», in quanto caratterizzata da una minima presenza di componenti solide dissolte (4 parti per milione). Si tratta di acqua sub-artica, che la società «pesca» da un fonte alimentata dall’Hardanger Joekulen, un ghiacciaio vecchio di 5 mila anni che si apre sull’omonimo fiordo, sulla costa occidentale della Norvegia (nella stessa zona si approvvigiona Isklar, altro marchio d’acqua d’alta gamma introdotta sul mercato inglese lo scorso aprile). L’Isbre - che in norvegese significa ghiacciaio - water viene imbottigliata e venduta.
A quanto?
Su Internet 12 bottiglie da un litro si acquistano a 19,85 dollari!!!

Qualche numero:
Il mercato delle bevande fuori casa segna il passo nell’estate della crisi.
Il bilancio dei primi 6 mesi del 2008 è negativo: -6%. Secondo un’ indagine del Consorzio Distributori Alimentari (16 mila esercizi) il calo maggiore nei consumi è al Nord, con -7,3% nel Nordovest e con -10% nel Nordest. Al Sud -4,4%, tiene il Centro con un +1,3%.
I canali più colpiti sono i bar (-7%) e i ristoranti (-6,1%); - 3,3% per i locali serali.
Tra i prodotti, precipitano nei bar e ristoranti gli sciroppi per cocktail (-22%), i «ready to drink» (-18,2%), gli aperitivi monodose (-10,2%), le bibite piatte (-9,3%) e le birre (-9,3%). Allarme anche per i vini: -9,3% nella ristorazione e -10,4% nei locali serali. Tiene l’acqua, che perde solo il 4%; gli energy drink crescono del 7,2%.

La domanda d’acqua potabile nel mondo è raddoppiata negli ultimi vent’anni, i consumi sono cresciuti con un tasso superiore all’aumento della popolazione.

L’oro blu è diventato il nuovo petrolio, il business è stellare!
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Bye!

giovedì 17 luglio 2008

Fannie e Freddie.


Fannie e Freddie sono due istituti di credito degli Stati Uniti.
Vendono mutui immobiliari. Sono come Ginger e Fred, ma non ballano su un set cinematografico. Danzano sul baratro del fallimento. Le loro azioni sono crollate nel mese di luglio.
In caso di bancarotta Fannie e Freddie lascerebbero un buco di 5000 miliardi di dollari, la metà del debito pubblico americano. Dovrebbe intervenire lo Stato nazionalizzandole con un automatico aumento del costo del denaro e delle tasse(in Italia è come se fallisse contemporaneamente la maggior parte delle imprese quotate in Borsa!).
Fannie deve rimborsare 216 miliardi di dollari entro un anno, Freddie un po’ di più, circa 291 miliardi. I soldi non ci sono. Per due motivi. Le rate dei mutui non vengono più pagate e nessuno sottoscrive nuovi mutui.
In sostanza il mercato immobiliare non c’è più!
La gente non ha più soldi e il costo del denaro è salito. Inoltre, il valore delle case è crollato e le banche sono piene di case ipotecate. Nella pancia dei bilanci delle banche ci sono ancora immobili valutati al valore precedente alla crisi dei “subprime”. Le banche non vogliono svalutare, alcune non se lo possono permettere, il loro valore azionario crollerebbe. Fannie e Freddie rappresentano uno tsunami finanziario che in un modo o nell’altro arriverà da noi.

In Italia i prezzi degli immobili sono drogati da un cartello di società immobiliari. Il centro delle città non ha più scopi abitativi, ma di lucro.
Il prezzo degli appartamenti non ha alcun legame con la realtà. Le società immobiliari stanno da tempo, in uno strano silenzio dei media, perdendo il loro valore in Borsa. Da gennaio 2008 le prime nove società del settore hanno perso 2,4 miliardi di euro, circa la metà della loro capitalizzazione. Pirelli Real Estate, un po’ di più della media: il 57,82%. Il crollo del mercato immobiliare in parte c’è già stato, chi aveva un euro di azione a Natale, si ritrova con 50 centesimi prima delle vacanze estive.
Il valore delle case è mantenuto alto in modo artificiale. Le grandi città sono invase da cartelli di vendita e di affitto e intanto si costruiscono sempre nuovi alloggi in periferia.
La cosa strabiliante è che la crisi vera non è ancora arrivata.

Negli Stati Uniti le banche a rischio fallimento sono circa 90. Una, Indy Mac, ha chiuso venerdì. Il terzo fallimento negli Stati Uniti per importanza del dopoguerra. Le file della gente che ritirava i risparmi sono la fotografia della situazione.

Fannie e Freddie stanno arrivando...!
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Fonte: http://www.beppegrillo.it