martedì 30 ottobre 2007

I mercati emergenti

I mercati emergenti hanno superato con disinvoltura la crisi dei subprime americani e ora si muovono di nuovo sui massimi.

Sotto il peso della crisi di agosto, le piazze di Cina, India e Brasile sono affondate più delle Borse tradizionali ma il recupero è stato altrettanto forte tanto che oggi l’indice Msci Emerging Markets, il barometro che misura l’andamento di tutti i paesi emergenti, ha segnato un nuovo record e sorpassato le principali piazze europee.
Alcuni di questi Paesi sono diventati più indipendenti, anche se hanno risentito degli scossoni di metà agosto, hanno dimostrato buoni fondamentali e si sono ripresi molto velocemente.

Cosa è cambiato?

Oggi sono Paesi più emersi che emergenti e rispetto al passato stanno dimostrando di essere più maturi, un ruolo fondamentale lo gioca l’andamento delle economie di questi Paesi e la loro forte crescita. Di fatto molti esperti e anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno da poco rivisto al rialzo le già alte previsioni di crescita. Per l’economia mondiale l’Fmi stima una crescita media del 5,2% per quest’anno. Lo stesso valore è previsto anche per il 2008. L’anno prossimo sono invece attesi incrementi più sostenuti rispetto alla media mondiale per Paesi come Cina (10,5%), India (8,4%) e Russia (6,8%). Sotto la media resteranno invece Giappone (2%) e Stati Uniti (2% quest’anno e 2,8% nel 2008).
Non solo. Secondo gli addetti ai lavori, a favorire i mercati azionari di queste aree contribuirà anche il recente taglio dei tassi della Fed che ha aiutato a creare un eccesso di liquidità sui mercati e a beneficiarne saranno proprio le aree emergenti.
Non mancano tuttavia i rischi che sono legati a un possibile rallentamento dell'economia Usa e al conseguente calo dei consumi americani.

Tra tutti gli emergenti qual è il Paese da favorire?

Secondo gli addetti ai lavori, un portafoglio di azioni emerging non può prescindere da un investimento sulla piazza cinese: soltanto in Cina sono attesi investimenti nel settore per 400 miliardi di dollari nei prossimi tre anni anche per effetto delle imminenti Olimpiadi.

Quindi, anche se la Cina è già salita molto c’è ancora spazio verso l'altro soprattutto grazie alla solidità delle aziende che possono contare su un buon management e su buoni bilanci aziendali.

L'elevata competitività, si sa, dipende molto dal basso costo del lavoro... ma questa è un'altra storia!

A presto!

martedì 23 ottobre 2007

I giovani guadagnano il 35% in meno dei padri...

Ebbene si...

I giovani cominciano, come è normale che sia, con uno stipendio più basso ma non hanno poi modo, andando avanti con gli anni, di recuperare con aumenti di salario. Nel 2002 gli stipendi d'ingresso sono così tornati a vent'anni prima, diminuendo del 35%.

Il quadro sulla situazione dei salari emerge da uno studio della Banca d'Italia, dal titolo "Il divario generazionale: un'analisi dei salari relativi ai lavoratori giovani e vecchi d'Italia".

«Il salario dei lavoratori dipendenti più giovani si è ridotto negli anni Novanta rispetto a quello dei lavoratori più anziani. In particolare, il calo del salario d'ingresso non è stato controbilanciato da una carriera e, quindi, una crescita delle retribuzioni più rapida. La perdita di reddito nel confronto con le generazioni precedenti risulta dunque in larga parte permanente», sottolinea lo studio, osservando come «in un quadro di moderazione salariale», come quello degli ultimi anni, sembra che «l'aggiustamento delle retribuzioni sia stato asimmetrico e abbia penalizzato maggiormente le prospettive dei lavoratori neoassunti rispetto a quelle dei lavoratori impiegati».

Alla fine degli anni Ottanta le retribuzioni nette medie mensili degli uomini fra i 19 e i 30 anni «erano del 20% più basse di quelle degli uomini fra i 31 e i 60 anni. Nel 2004 la differenza era quasi raddoppiata in termini relativi, salendo al 35%», osserva lo studio, mettendo in evidenza che un andamento simile è osservato anche per le retribuzioni orarie, «che non risentono della crescente diffusione del lavoro part-time, ed è riscontrabile a tutti i livelli di istruzione».

La dinamica del differenziale generazionale riflette il «declino dei salari d'ingresso, presumibilmente connesso ai mutamenti della legislazione sul mercato del lavoro».

Per favorire il calo del tasso di disoccupazione tra i giovani, infatti, negli anni passati è stato introdotto un nuovo tipo di contratto che ha consentito alle imprese di pagare meno i neoassunti, come «compensazione per gli obblighi di training» dei giovani.

Gli autori dello studio stimano che «nel decennio 1992-2002 il salario mensile iniziale sia diminuito di oltre l'11% per i giovani entrati sul mercato del lavoro fra i 21 e i 22 anni, presumibilmente diplomati (da 1.200 euro mensili a meno di 1.100 euro); il calo è dell'8% per i lavoratori fra i 25 e i 26 anni, potenzialmente laureati (da 1.300 a 1.200 euro mensili). per entrambe le classi di età, i salari d'ingresso, sono tornati nel 2002 ai livelli di 20 anni prima».

A rendere ancora più evidente il divario generazionale, anche in termini previdenziali oltre che di busta paga, sono poi intervenute le riforme delle pensioni. «I giovani lavoratori sembrano dover sopportare elevati contributi sociali e alte tasse, un rallentamento della crescita dei salari reali e una bassa copertura pensionistica, insieme a una carriera instabile.

Questo è abbastanza - conclude lo studio - per giustificare crescenti preoccupazioni, anche in presenza di una crescita dell'occupazione».

...Un'analisi che rende giustizia a quei giovani che, definiti "bamboccioni" dal ministro dell'Economia, con una battuta ritenuta dai i più infelice, spiegherebbe il perché i ragazzi non ce la fanno economicamente a staccarsi dalla famiglia d'origine.

venerdì 19 ottobre 2007

Crisi dei subprime: cosa non funziona

Gli attori del mercato finanziario hanno approfittato della creazione di barcollanti strumenti di debito ma non pagheranno il grosso del costo della crisi e le perdite ricadranno sulle spalle degli investitori finali. Vanno corrette tre cose: le stime del credito, valutazioni della negoziabilità degli asset e la trasparenza nel mercato al dettaglio delle attività finanziarie.

Le oscillazioni, stile montagne russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni.

L'Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose, seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle attività finanziarie.


L’Economist ha ragione? C'è una caratteristica particolare nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la fase di boom.

Ci sono quattro caratteristiche dell’attuale sistema finanziario che vale la pena ricordare:

1) L’enorme crescita delle attività finanziarie e derivati in tutto il mondo.
Alla fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale. L'ammontare nozionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale. Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a trent’anni fa.

2) Lo storico basso livello dei tassi d’interesse negli ultimi anni, dalla metà degli anni ‘90 (come effetto della politica monetaria condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita del mercato finanziario).
Come conseguenza delle condizioni monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal mercato è rimasto a livelli molto bassi.

3) Il peso crescente delle azioni e dei bond in percentuale del totale delle attività finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari).
A livello mondiale (e nell'Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 % del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.

4) La diminuzione dei bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito totale.
Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del 50 % e in Europa del 35 %, in Nord America è del 26 %, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio di credito.

Questi sono gli ingredienti della magia dell’innovazione finanziaria degli ultimi decenni:
in breve, le banche hanno creato un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di strumenti finanziari, con gradi diversi di garanzia.


Dove sta il rischio?

Questi strumenti sono state comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni, compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating generalmente alto dato a questi strumenti.

Secondo una importante scuola di pensiero, questo finanziamento "arm-length" è il più efficiente per collocare le risorse.

...Altri possono ricordare Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema "con cui una persona che non può pagare trova un'altra persona che non può pagare che garantisce che può pagare".

In effetti, i sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che preoccupa soprattutto le banche centrali è che – diversamente da quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based – semplicemente non sanno dove sta il rischio!
" …Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo." (dichiarazione estratta dalla Relazione della Banca per i Regolamenti Internazionali – Giugno 2007).

...Onesto, ma assai preoccupante!

Chi ci perde?

La sola cosa che sappiamo è che le perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati.

In altre parole… la pazzia del credito è finita, una dieta era più che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono quelli che si sono ingrassati negli anni passati!


L’allocazione del finanziamento

L'efficienza allocativa del finanziamento "arm-length" merita almeno un secondo giudizio. Le implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno tre:

1. Ancora una volta, è emerso un problema di rating.
Le valutazioni del rischio del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche, usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono soltanto, la frammentazione delle responsabilità conduce a ciò che L'Economist ha definito come "troppo denaro prestato a condizioni troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone".
Le banche non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.

2. I titoli emessi erano molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente; alcuni erano fatti su misura dalle banche d'investimento per clienti specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market (la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti al computer e di ipotesi altrettanto soggettive.
La formazione del prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario basato sui titoli era semplicemente un'illusione!
Gli investitori finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono trattati in mercati sottili e non-regolamentati.

3. C’è un problema di trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è consapevole del rischio effettivamente sopportato.
Ci sono due reazioni ipocrite che emergono:
chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione finanziaria.

La prima strada dovrebbe condurre soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in finanza (meglio se di un'annata molto recente).

La seconda strada è perfino più assurda poiché è semplicemente impossibile colmare il divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali prodotti!

La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l’organo di vigilanza) prova che la filosofia dell’attuale regolamentazione crea una forte propensione verso la complessità e l'opacità.


In conclusione...

E’ arrivato il momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici agli investitori finali.
Solo a questo punto un più alto livello di educazione finanziaria sarà efficace. E’ bene anche che gli economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più dickensiana a ciò che succede all'ultimo anello della "magia" della creazione del credito.

Fonte: M. Onado (La Voce)

giovedì 18 ottobre 2007

Banche d'Affari...

Le gravi distorsioni sul mercato del credito sono la vera questione su cui dobbiamo confrontarci... Giudizio netto. Parole dure. Chi le ha pronunciate? Un attivista no global? Un sindacalista? Un'autorità di controllo sulle Borse, preoccupata per la stabilità a breve termine dei mercati? Risposte sbagliate.
A sorpresa, il pulpito da cui è arrivata questa severa presa di posizione sui guasti del sistema è quello del più potente banchiere d'affari del mondo. Lloyd Blankfein, numero uno della statunitense Goldman Sachs, marchio vincente della finanza internazionale, ha pensato bene di esternare le sue valutazioni sulla crisi di queste settimane: "Abbiamo sottovalutato i rischi", ha detto in sostanza Blankfein. E questo errore, ammette il banchiere, ha finito per alimentare quella bolla speculativa che secondo molti osservatori minaccia ancora di provocare disastri a catena sui mercati dopo gli scossoni della scorsa estate.

Errore? A ben guardare, quello che Blankfein, con il senno di poi, definisce un errore ha funzionato per anni come un gigantesco moltiplicatore di profitti per Goldman Sachs e anche per le sue dirette concorrenti. Nomi altisonanti: Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman, per citare solo le principali tra le banche d'investimento internazionali. Questi colossi della finanza globale sono riusciti a cavalcare alla grande il boom dei cosiddetti prodotti derivati. In sostanza, hanno costruito e venduto a peso d'oro strumenti finanziari tanto complessi che diventa praticamente impossibile valutarne la rischiosità e, di conseguenza, anche il prezzo. .

Morale: le banche hanno fatto soldi a palate scaricando sul mercato bombe finanziarie a orologeria.

Esemplare il caso di Italease.

A fine luglio la Banca d'Italia, con una serie di telefonate informali, ha richiamato all'ordine alcuni istituti, tra cui Deutsche Bank e Bnp-Paribas, che a partire dal 2005 avevano contribuito ad allestire l'arsenale di prodotti derivati poi girati da Italease ai propri clienti. Nasce da qui il buco di quasi 500 milioni di euro nei conti semestrali della banca milanese. Solo che nella primavera scorsa, quando la crisi è esplosa, Deutsche Bank e gli altri erano già passati alla cassa, con guadagni complessivi per centinaia di milioni di euro. Un comportamento legittimo, ma giudicato probabilmente un po' troppo disinvolto dal governatore Mario Draghi. Corsi e ricorsi storici: Italease si appoggiava alla filiale londinese della Deutsche Bank. La stessa che a suo tempo fece ponti d'oro ai furbetti del quartierino, da Stefano Ricucci a Gianpiero Fiorani.

Per fare un altro esempio tutto italiano, anche gli enti locali si sono trasformati in una miniera di profitti per i grandi marchi della finanza internazionale. Le obbligazioni emesse da Regioni e Comuni hanno garantito percentuali di guadagno enormi (a volte addirittura a doppia cifra) per gli istituti che, oltre a fare da advisor per il collocamento dei titoli, hanno anche allestito l'impalcatura di prodotti derivati costruita attorno a queste emissioni.

Per contendersi questo redditizio (a dir poco) mercato sono scesi in campo operatori come l'americana Merrill Lynch e la giapponese Nomura, ma anche molti altri. Per dare un'idea delle dimensioni dell'affare, basta dire che l'anno scorso il valore complessivo di questo tipo di operazioni ha superato i 10 miliardi di euro. "Ma quasi mai", sottolinea Marco Bigelli, ordinario di finanza aziendale all'università di Bologna, "gli enti locali possiedono le competenze necessarie a valutare le proposte dei loro consulenti". Come dire: campo libero alle banche tra sospetti e dubbi di ogni tipo, che, in qualche caso, hanno dato il via anche a indagini amministrative.

L'intervento di Draghi nel caso Italease viene interpretato dagli addetti ai lavori come un segnale chiaro che le autorità di controllo hanno finalmente alzato la guardia. Spiega Marco Onado, ex commissario Consob e professore all'università Bocconi: "Le grandi investment bank hanno preferito limitarsi a facilitare l'emissione di strumenti sempre più sofisticati trasferendo il rischio agli investitori finali".

Per un po' il gioco ha funzionato.

Con i mercati finanziari inondati di liquidità grazie ai tassi d'interesse ai minimi storici, gli investitori erano convinti di guadagnare mettendosi al riparo dai rischi, mentre le banche gonfiavano il conto economico, poi il vento è cambiato...

lunedì 8 ottobre 2007

Nonostante le liberalizzazioni le banche continuano ad applicare costi ingiustificati

E' l’accusa delle associazioni dei consumatori.

«A 15 mesi dal primo pacchetto Bersani - avvertono Adusbef e Federconsumatori - la casta degli intoccabili banchieri, che vessa i risparmiatori, non ha applicato la legge, lucrando 5,7 miliardi di euro scippati ai correntisti».

Un monitoraggio rivela numerose violazioni su simmetria dei tassi, portabilità dei mutui, equità sulle penali dei vecchi mutui, rinegoziazione dei prestiti e spese di chiusura dei conti.

Riguardo alla simmetria dei tassi, il decreto Bersani obbliga le banche a un adeguamento automatico dei tassi bancari in contemporanea con le mosse della Bce. «In un anno - sottolineano Adusbef e Federconsumatori - la Bce ha effettuato 5 aumenti del costo del denaro, pari all’1,25%. Dopo le cinque decisioni dell’Eurotower le banche italiane hanno tempestivamente aumentato il costo del denaro su mutui, prestiti personali, fidi e finanziamenti, con una stangata di 1.350 euro l’anno su un modesto mutuo a tasso variabile, senza aumentare minimamente i tassi sui depositi». Questa elusione sistematica delle norme, secondo i consumatori, ha consentito alle banche un guadagno illecito pari a 5,7 miliardi di euro al 30 settembre, calcolato su un monte depositi di 682 miliardi di euro.

Per quanto riguarda la portabilità dei mutui, le banche monitorate da Adusbef e Federconsumatori «non hanno ancora applicato questo provvedimento, forse perchè consigliate dalla corporazione dei notai». «Banche distratte o in malafede - stigmatizzano le due associazioni - cercano di fare orecchie da mercante perfino su un accordo chiaro, che prevede sconti per tutti i mutui, sia fissi sia variabili contratti prima del 2001, con una penale massima dello 0,50% e con una clausola di garanzia dello 0,20% anche per quella penale massima dello 0,50%, che in tal caso diventa dello 0,30%». A più di cinque mesi dall’accordo, aggiungono, gli istituti di credito che avevano incassato penali non dovute fanno fatica a restituire il conguaglio ai consumatori: «Cedono solo dopo i reclami degli utenti e gli interventi delle associazioni, affermando di avere male interpretato la norma, prendendosi tutto il tempo per i rimborsi e provando anche ad addebitare commissioni illecite e non dovute».

L’applicabilità delle nuove norme sulla cancellazione automatica dell’ipoteca è espressamente prevista anche ai mutui estinti in precedenza all’entrata in vigore della legge, ma anche in questo caso, secondo Adusbef e Federconsumatori, gli istituti di credito continuano «a provarci, chiedendo da 400 e fino a 1.000 euro per una cancellazione dell’ipoteca che deve essere invece estinta gratuitamente alla fine del pagamento dell’obbligazione. Solo dopo interventi duri dell’Adusbef, banche che richiedevano il notaio per cancellare l’ipoteca promettono di estinguerla gratis».

Sarebbe infine illusoria la gratuità per la chiusura del conto corrente: «I costi di estinzione sono stati sostituiti da “oneri e spese di liquidazione interessi”... Cambia dunque la forma, ma non la sostanza...!

Occhi aperti!!!

lunedì 1 ottobre 2007

Le Borse chiudono un trimestre difficile.

Nell'ultima ottava sui listini ha dominato l'incertezza anche se tutto sommato la settimana è stata positiva. Gli operatori adesso aspettano i risultati aziendali e, nel frattempo, cercano di interpretare i dati macroeconomici.

Situazione macroeconomica difficile da interpretare, forte volatilità, pericolo subprime, poche idee di investimento. Anche l’ultima ottava di settembre ha seguito i temi che hanno caratterizzato il terzo trimestre dell’anno. E, preparandosi alla prossima ondata di risultati societari, gli investitori hanno preferito restare alla finestra.

L’indice Msci World, in cinque sedute ha guadagnato poco meno dell’1%.
(MSCI: Morgan Stanley Capital International, controllata da Morgan Stanley, una delle più famose banche d´affari statunitensi, è una società che dal 1970 realizza una serie di indici di carattere prevalentemente azionario, suddivisi in base a criteri geografici e settoriali. Ad oggi MSCI ha elaborato 51 indici a carattere nazionale e 57 indici geografici aggregati, che si suddividono in indici rivolti ai mercati sviluppati (Europa, Usa, Pacifico), in Mercati Emergenti (EM) e Tutti i Paesi (AC))


Stati Uniti
L’indice Msci North America nell’ultima ottava ha guadagnato circa lo 0,6%. Gli ultimi dati congiunturali danno una radiografia confusa dello stato di salute della prima economia mondiale. Secondo i numeri forniti dal Dipartimento del commercio ad agosto le spese al consumo sono cresciute dello 0,6% rispetto al +0,4% di luglio. In altre parole, le famiglie americane non si sono fatte spaventare dalla crisi finanziaria legata ai mutui subprime (quelli di bassa qualità) e hanno continuato a mettere mano al portafoglio. Gli effetti della turbolenza, commentano gli economisti, probabilmente si faranno sentire nei prossimi mesi.
Il dollaro nel frattempo ha toccato nuovi minimi contro l’euro: la moneta unica viene scambiata a 1,4189 contro il biglietto verde. Questo da una parte dovrebbe dare una mano alle aziende esportatrici di prodotti made in Usa, ma dall’altra aumenterà il costo di quelli importati. Più in generale l’appannamento della moneta americana indica un rallentamento dell’economia.

Europa
La situazione è simile nel Vecchio continente dove il relativo indice Msci è cresciuto dello 0,7%. Anche da questa parte dell’Atlantico la situazione macroeconomica non brilla. Secondo i dati elaborati dalla Commissione europea la fiducia di dirigenti d’azienda e consumatori a settembre è scesa a 107,1 punti contro i 109,9 segnati ad agosto. Segnali preoccupanti sono arrivati anche dal fronte dell’inflazione. I prezzi al consumo, sempre questo mese, sono cresciuti del 2,1% rispetto all’1,7% dei 31 giorni precedenti. Si tratta del risultato peggiore degli ultimi 13 mesi.
Nel frattempo la Banca centrale europea, a causa anche della crisi dei subprime americani ha tagliato le stime di crescita per l’area.
Secondo gli economisti il mix fra il rallentamento della congiuntura e la corsa dell’inflazione potrebbe far aumentare la paura di una stagflazione (situazione nella quale sono contemporaneamente presenti su un determinato mercato, sia un aumento generale dei prezzi, cioè l’inflazione, sia una mancanza di crescita dell'economia in termini reali, cioè la stagnazione economica). In questa situazione a sostenere le Borse ci pensano i titoli minerari e, più in generale, quelli legati alle materie prime. Si tratta, spiegano gli analisti, di settori il cui andamento è sganciato dal quadro macro e che in questo momento, grazie anche alla domanda da parte dei Paesi emergenti, rappresentano il classico porto sicuro per gli investitori.

Asia
L’indice Msci della regione nell’ultima ottava ha guadagnato il 3,2%. Merito, anche in questo caso, della corsa delle commodity che ha dato tonicità ai listini. Una mano l’ha data anche la Banca popolare cinese secondo cui l’economia del Paese del Drago quest’anno potrebbe crescere dell’11,6%. Insomma, dicono gli analisti, la situazione è buona. Ed essendo la Cina il volano dell’Asia, gli effetti positivi si faranno sentire anche sui conti delle aziende dell’intera area. Giappone Scenario più complicato nel Sol Levante.
L’indice Msci del Paese nell’ultima settimana ha guadagnato il 2,2%. Secondo i dati del Ministero dell’economia la produzione industriale a luglio è cresciuta del 3,4%, il massimo degli ultimi quattro anni. Contemporaneamente è aumentata la spesa al consumo (0,5%). Ad agosto, tuttavia, è aumentata la disoccupazione: +3,8% rispetto al 3,6% di luglio (minimo degli ultimi nove anni).
L’economia, insomma, nonostante i segni di recupero mostrati nei mesi scorsi, potrebbe tornare a zoppicare...