lunedì 31 dicembre 2007

Buone Feste da FilBlog!!!



Tanti cari Auguri a tutti, per un Felice 2008!!!


Filippo

domenica 30 dicembre 2007

Borsa, bilancio 2007: le banche frenano il listino


Una Borsa dominata dalle banche non poteva che rifletterne i tentennamenti.
Così dei grandi mercati azionari internazionali, Piazza Affari è stata l'unica, in compagnia del Kabutocho, ad archiviare il 2007 con un ribasso degli indici: -7% per Milano (S&P-Mib), -11% per Tokyo.

"Colpa" dei titoli finanziari che rappresentano quasi il 45% del listino (contro il 30% degli industriali e il 25% dei servizi), sebbene non sia certo nella Penisola l'epicentro della crisi dei subprime che a partire da agosto ha tagliato le gambe alla corsa delle quotazioni.

Da fine 2002 il saldo è ancora positivo del 67%, ma il 2007 ha interrotto la serie positiva che negli ultimi quattro anni aveva regalato performance a due cifre.

A soffrire sono state soprattutto le società di piccola-media capitalizzazione, anche quelle con ottimi fondamentali: il Midex, l'indice delle medio-grandi, risulta infatti arretrato di oltre il 14%; mentre lo Star (le Pmi con requisiti d'eccellenza) ha ceduto il 16%. Da una parte le small-mid cap hanno sofferto per lo spostamento degli investitori sui titoli più liquidi, dall'altra proprio le società di minori dimensioni offrivano le migliori occasioni di prese di profitto.

Tuttavia, nell'anno in cui Borsa italiana ha deciso la storica alleanza con Londra, gli indicatori di efficienza del mercato non hanno deluso. Dati meno appariscenti delle performance, ma non meno importanti per gli investitori. Come la turnover velocity (il rapporto tra controvalore degli scambi e capitalizzazione di Borsa), che misura la liquidità e l'efficienza del mercato, dove Piazza Affari ha saputo conquistare la leadership continentale.

La classifica

Dei 375 titoli azionari quotati a fine anno, 90 (il 24%) hanno evidenziato performance superiori al 2,5%, 210 (il 56%) negative per oltre il 2,5%. In assoluto, il rialzo più spettacolare è stato quello di Acotel (+341%), seguita da Basicnet (+120%) e Kerself (+111%). Maglia nera per Italease che ha lasciato sul campo il 74,4%, tallonata da Cell Therapeutics in ribasso del 74,3% e seguita da Pininfarina (-62,8%). Tra le blue chip dell'S&P-Mib, il podio spetta invece a Saipem (+38,5%), Aem (+23,2%) e Fiat (+21,3%). In coda, tra i titoli presenti nel paniere per l'intero anno, Fastweb (-42%), Seat (-40%) e Italcementi (-32%). Nell'anno 130 sedute si sono chiuse in rialzo, due invariate, 119 in ribasso. Il mese con la miglior performance è stato aprile (+4,5%), quello con la peggiore novembre (-5,3%).

La capitalizzazione

Borsa italiana resta al sesto posto per capitalizzazione delle società quotate con 731 miliardi di euro. In rapporto al Pil, a causa del calo delle quotazioni, il peso si è ridotto passando dal 52,8% dell'anno scorso al 47,8%. Tuttavia il listino si è allungato di 32 nuovi nomi (soprattutto PMI), raggiungendo con 344 società quotate il record storico per il mercato italiano.

Delle 32 Ipo, 30 hanno riguardato imprese di piccole e medie dimensioni. Le revoche sono state 14, in sei casi per la conclusione di offerte pubbliche d'acquisto.


Gli scambi

Record storico anche per gli scambi, sia in termini di contratti che di controvalore: il totale ha raggiunto 1.572 miliardi di euro (+39%, in crescita per il quinto anno consecutivo), con una media giornaliera di 6,26 miliardi. L'afterhours, con 47 milioni di euro trattati al giorno, ha pure raggiunto nuovi massimi. E forte crescita (+84%) ha registrato il segmento degli Etf, confermandosi al primo posto in Europa per scambi telematici.


I derivati

Nel corso dell'anno sull'Idem, il mercato dei derivati, sono stati scambiati 37,1 milioni di contratti standard, per un controvalore nozionale di 1.560 miliardi (+32%). La media giornaliera di contratti standard è passata da 124.434 a 147.730 unità (+18,7%), nuovo massimo storico.


Collocamenti e Opa

Nel 2007 le società hanno raccolto in Borsa – tramite collocamenti o offerte iniziali – 8,4 miliardi, di cui 4,4 miliardi relativi a Ipo (1,4 miliardi attraverso emissione di nuove azioni e 3 miliardi in vendita). Le Opa sono state in tutto 22, per un controvalore di 5,6 miliardi (7,1 nel 2006). L'offerta di maggiori dimensioni è stata quella di Swisscom su Fastweb (3 miliardi).

Confidiamo allora in un 2008 con un mercato sì efficiente... ma che permetta di ottenere performance che rispecchino le aspettative di noi azionisti!



Fonte: Sole24Ore

venerdì 28 dicembre 2007

Poste... e non più Poste.


Concede prestiti e mutui ma non è una banca. Stipula polizze vita e danni ma non è un’assicurazione. Non è un neppure un operatore tlc eppure consente di attivare linee telefoniche. Così come vende libri e cd ma non è una libreria.


Si potrebbe andare avanti ancora per molto perché a Poste Italiane si sono inventati veramente di tutto negli ultimi anni per aumentare i ricavi in vista della scadenza del 2011 quando il servizio postale sarà completamente liberalizzato e sul mercato italiano potranno entrare colossi del calibro della francese La Poste, dell’inglese Royal Mail e Deutsche Post.


Un appuntamento cruciale per la società ancora controllata al 100% dal Tesoro dopo i fallimenti dei progetti di privatizzazione. Il governo Prodi ha rimesso nel cassetto il dossier quotazione in Borsa proprio a causa della minaccia di un drastico calo del fatturato con l’arrivo dei nuovi concorrenti. Perché se è accertato che il tasso di redditività per il gruppo guidato da Massimo Sarmi, che si colloca intorno al 16%, è ai primi posti tra i grandi operatori postali d’Europa, è anche vero che i tempi di consegna della corrispondenza sono ancora sotto la media europea e sui ritardi sta addirittura indagando la Procura di Roma.


Al quartier generale di Poste Italiane l’allarme è massimo. Per questo motivo si sono dati un obiettivo ambizioso: le nuove attività, come a esempio il postino telematico, l’e-commerce e l’operatore mobile virtuale subiranno un forte slancio e nel 2010 contribuiranno per il 13% ai ricavi totali, a fronte del 9% di fine 2007.


Inoltre Poste Italiane conta sul fatto che è l’unico tra gli operatori europei a possedere e gestire direttamente il 100% della rete di sportelli. In Olanda e in Gran Bretagna, ad esempio, la stragrande maggioranza degli uffici viene gestita da terzi. Sembrerebbe poi definitivamente accantonato il progetto di chiudere gli sportelli postali ubicati nei comuni con meno di 500 nuclei famigliari. Nel periodo 2003-2006 gli uffici in Italia sono addirittura aumentati dello 0,8 per cento.


Un impulso ai ricavi di Poste Italiane arriverà sicuramente dal lancio della telefonia mobile.
Il gruppo è stato uno dei primi operatori mobili virtuali ad avviare il servizio grazie a un’intesa con Vodafone con l’obiettivo di conquistare 2 milioni di clienti e conseguire 500 milioni ricavi. Il servizio consente anche di fare operazioni sul conto Bancoposta e trasferire denaro.


Marciano già a gonfie vele la vendita di prodotti finanziari, mutui e assicurazioni grazie ad accordi con le banche mentre la sfida per il futuro per Poste Italiane è quella di diventare un istituto di credito a tutti gli effetti. Abi consentendo. Sarmi punta a raggiungere l’obiettivo in tempi brevi ma finora la ricca lobby dei banchieri si è mossa bene per frenare un concorrente così radicato su tutto il territorio.


La sfida continuerà nei prossimi mesi...

giovedì 27 dicembre 2007

Euribor "caldo" fino a giugno


Dodici mesi fa erano sicuramente molti gli analisti a indicare un costo del denaro al 4% nell'Eurozona a fine 2007. Non tutti però si aspettavano che a una prima parte dell'anno caratterizzata da due ritocchi dello 0,25% sarebbero poi seguiti sei mesi con la Banca centrale europea (Bce) immobile e probabilmente nessuno pensava a una crisi simile sui mercati monetari, con i tassi interbancari Euribor ben al di sopra del saggio fissato a Francoforte.

Trichet naviga a vista. L'impressione generale è che la Bce si guarderà attorno a lungo prima di toccare i tassi: Trichet dovrà fronteggiare due forze contrapposte: da un lato un'inflazione che rimarrà ben al di sopra del 2%, dall'altro una crescita che va raffreddandosi e si posizionerà sotto il potenziale.

Quando si tenta di disegnare la strada che prenderanno i banchieri di Francoforte, le opinioni divergono: una parte significativa, comunque, ritiene possibile una riduzione dei tassi (il 17% di 25 punti base, il 22% di 50 punti e il 5% addirittura oltre).

Quando si parla di Euribor, le previsioni si fanno più articolate: la sensazione è che si vada verso una normalizzazione dei tassi interbancari, ma che il cammino sia lungo e non privo di insidie. Così, per il 25% degli intervistati, l'Euribor 3 mesi resterà oltre il 4,5% anche nei primi sei mesi del 2008, nonostante i ripetuti interventi della Bce per calmare le acque sui mercati monetari. (sull'efficacia di queste operazioni, peraltro, gli esperti si dividono).

Dunque, i risparmiatori dovranno stringere la cinghia almeno fino a giugno, ma per fine 2008 il 21% degli operatori vede l'Euribor 3 mesi addirittura sotto il 4 %.
Se così fosse, per chi ha un mutuo a tasso variabile il peggio potrebbe essere alle spalle...


Fonte: Radio24

giovedì 20 dicembre 2007

Natale a credito: indebitarsi per comprare i regali.


Far debiti per il regalo I prezzi salgono, le tredicesime scendono ma le famiglie italiane non rinunciano a fare i regali di Natale e per metterli sotto l'albero sono pronte a indebitarsi.
Secondo l'associazione dei consumatori Telefono Blu, che ha analizzato il trend delle spese in 12 grandi città nei primi 2 week end di dicembre, rispetto agli ultimi tre anni il credito al consumo nel periodo prenatalizio è aumentato del 17%, i prestiti 'diretti' del 28% e il ricorso alla cessione del quinto del 33% . Cresce ancora, del 21%, l'uso delle carte di credito e delle revolving, strumenti anche questi che permettono di dilazionare nel tempo i pagamenti.
Le rate consentono cosi' di aumentare le spese medie del periodo natalizio ma l'effetto finale è sempre lo stesso: spendere meno al momento dell'acquisto e indebitarsi sempre di più nel resto dell'anno.
Il ritmo delle erogazioni, nonostante le recenti turbolenze finanziarie, rimane dunque elevato, anzi, secondo alcuni osservatori è addirittura in accelerazione, ulteriore testimonianza della difficoltà delle famiglie a far fronte agli impegni finanziari personali.
E, come se non bastasse, ad alimentare il fenomeno contribuiscono in maniera rilevante gli stessi negozianti che, grazie al credito al consumo, possono incassare subito tutto il prezzo dei beni venduti. Basta entrare in un negozio o in un centro commerciale in questi giorni per rendersene conto: ormai si è abbagliati, oltre che dalle insegne natalizie e dai prodotti, dall'esposizione di cartelli che reclamizzano la vendita di tv, pc o stereo attraverso formule di finanziamento in apparenza molto convenienti, come ad esempio quelle con un tasso di interesse sul rimborso delle rate pari a zero. Ma in queste promozioni di magico c'è davvero ben poco. Dietro al tanto pubblicizzato tasso zero, che in realtà corrisponde al t.a.n. (il tasso annuo nominale), un tasso di interesse che non viene caricato sul cliente ma del quale si incaricano direttamente rivenditore o finanziaria, c'è infatti il cosiddetto T.a.e.g.: il tasso annuo effettivo globale, attravero il quale l'acquirente restituirà al finanziatore oltre al capitale prestato anche tutte le spese connesse ad una pratica di finanziamento come, ad esempio, le spese di istruttoria e quelle per la gestione della pratica.
E questo non è mai pari a zero...


Fonte: radio24

martedì 18 dicembre 2007

Internazionalizzazione


Un anno così le imprese italiane non lo vivevano da tempo.

L’immagine che ci rimarrà impressa sarà quella dell’Alitalia che agonizza, con un numero inquietante di medici al suo capezzale, ma anche se è l’immagine più vivida, non è però la più vera.
Perché?
Perchè questo che va a finire è stato l’anno del risveglio e della internazionalizzazione.
Per un’Alitalia in coma c’è un Enel che comprando Endesa fa un salto dimensionale che nessun altro in Europa è riuscito a fare, c’è un Eni che nei dodici mesi riesce a comprare nuovi asset più di qualunque dei suoi competitor internazionali, c’è Mediaset che investe 2,6 miliardi di dollari per comprare Endemol. Luxottica ne spende 2,1 per la Oakley. Tenaris per un miliardo e quattro acquista Hydril e Rcs impiega oltre un miliardo per Recoletos.
E ce ne sono altre decine che con investimenti ciascuno nell’ordine delle centinaia di milioni di euro hanno fatto fare un salto di livello all’internazionalizzazione dell’impresa italiana.

Nei primi undici mesi dell’anno, secondo le stime di Kpmg Corporate Finance, le acquisizioni all’estero di imprese italiane sono state 108 per un ammontare complessivo di 57 miliardi euro. Erano stati 15 miliardi di euro nel 2006, 29 nel 2005 (grazie all’effetto UnicreditoHvb), solo 4 nel 2004.
E’ il risveglio, dopo anni di lavoro interno e silenzioso, di un pezzo di paese che forse da solo non basta a trainarci tutti e 56 milioni quanti siamo fuori dal guado, ma che sta facendo in pieno la sua parte. Sergio Mariotti, che insegna al Politecnico di Milano e insieme a Marco Mutinelli (e in collaborazione con l’Ice) ha creato la banca dati Reprint e l’osservatorio ‘Italia Multinazionale’, evidenzia il ritorno sulla scena internazionale delle grandi imprese, che negli anni scorsi avevano abbandonato il campo, e la riscoperta degli Stati Uniti dal cui mercato le aziende italiane si erano ritirate negli anni passati e ora grazie anche all’euro forte stanno tornando, e, significativamente, con l’acquisto non solo di reti di vendita ma anche di impianti produttivi. Di grandi imprese, si sa, l’Italia è povera, e tolte banche e assicurazioni, rimangono le private Telecom e Fiat, alle quali va aggiunta Tenaris visti i suoi oltre 18 miliardi di euro di capitalizzazione, e Eni ed Enel delle quali lo Stato è azionista di controllo. Ha fatto la sua parte anche il governo istituzione, con il presidente del consiglio e alcuni ministri che si sono spesi molto in giro per il mondo per appoggiare le strategie delle imprese italiane, a partecipazione pubblica e non. In realtà hanno semplicemente fatto quello che da sempre fanno i governi francese, inglese, tedesco, e che invece negli anni passati in Italia non faceva nessuno.

La lista dei "vincitori" è lunga, e scorrerla dà una certa soddisfazione.

E’ l’altra Italia, quella che non ha paura del futuro...

mercoledì 12 dicembre 2007

La busta paga...

Parliamo di busta paga con una piccola premessa: i soldi che prendiamo al mese non sono più la giusta remunerazione del nostro lavoro in azienda, non sono più una ragionevole funzione/rapporto con il fatturato ed il profitto aziendale e sono sempre più un opportunistica offerta di denaro per servizi spesso garantiti da contratti o aziende precarie.

Il lavoro è sempre più costo ed è assimilato ad un macchinario, ad un server o un computer. La forza lavoro non rappresenta più un fattore chiave della qualità di prodotti e servizi offerti dall'azienda ma è un vantaggio/svantaggio competitivo in base al suo costo.

E' talmente forte il divario fra busta paga media e fatturati/profitti delle aziende che non ha senso parlare di produttività quando il discrimine è fra delocalizzare per sfruttare la manodopera a basso costo o precarizzare i rapporti di lavoro garantendo nel migliore dei casi retribuzione su 180 giorni annui con evidenti risparmi a cui si aggiungono le ferie e la malattia non pagate.

La legge finanziaria 2007 ha di fatto ribaltato la riforma avviata dal precedente governo, tornando al sistema delle detrazioni di imposta ed ha provveduto a sostituire le deduzioni di lavoro dipendente, pensione, lavoro autonomo e altri redditi con un sistema di detrazioni per carichi di famiglia e di detrazioni per alcune categorie di redditi.

Dallo stipendio mensile si trattengono i contributi previdenziali a carico del lavoratore (vedi pagina precedente della guida) per determinare così il reddito imponibile su cui calcolare l’Irpef secondo le seguenti aliquote in vigore dal 1° gennaio 2007:

  • per redditi fino a 15.000 euro, il 23 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 15.000 euro e fino a 28.000 euro, il 27 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 28.000 euro e fino a 55.000 euro, il 38 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 55.000 euro e fino a 75.000 euro, il 41 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 75.000 euro, il 43 per cento.


Che rapportati a valore mensile:

  • per redditi fino a 1.250,00 euro, il 23 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 1.250,00 euro;
  • per fino a 2.333,33 euro, il 27 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 2.333,33 euro e fino a 4.583,33 euro, il 38 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 4.583,33 euro e fino a 6.250,00 euro, il 41 per cento;
  • per la parte di reddito superiore a 6.250,00 euro, il 43 per cento.


A questo punto si è determinata l’imposta lorda dovuta.

A) Detrazioni per lavoro dipendente

Se alla formazione del reddito complessivo concorrono uno o più redditi di lavoro dipendente con esclusione di quelli di pensione spetta una detrazione dall’imposta lorda, rapportata al periodo di lavoro nell’anno, scaglionata in relazione all’ammontare del reddito:

Reddito complessivo

Detrazione

fino a 8.000 euro

1.840 euro

da 8.001 a 15.000

1.338 + (502 x [(15.000 – reddito complessivo): 7.000])

da 15.000 a 55.000

1.338 x [(55.000 – reddito complessivo) : 40.000]

oltre 55.000

0

* per i rapporti di lavoro a tempo determinato la detrazione spettante non può essere inferiore a 1.380 euro

La detrazione di 1.840 euro comporta di fatto la non tassazione dei redditi fino a 8.000 euro annui.

Le detrazioni sopra indicate per i redditi superiori a 15.000 euro ma inferiori a 55.000, sono elevate in rapporto al reddito complessivo:

Reddito complessivo

Incremento detrazione

da 23.001 a 24.000 euro

euro 10

da 24.000 a 25.000 euro

euro 20

da 25.000 a 26.000 euro

euro 30

da 26.000 a 27.700 euro

euro 40

da 27.700 a 28.000 euro

euro 25


B) Detrazioni d’imposta per il coniuge e gli altri familiari fiscalmente a carico
(ossia che possiedano un reddito complessivo non superiore a 2.840,51 euro, al lordo degli oneri deducibili e comprensivi della rendita dell’abitazione principale).
Le detrazioni per carichi di famiglia sono rapportate a mese e competono dal mese in cui si sono verificate sino a quello in cui sono cessate le condizioni richieste:

Coniuge
Per il coniuge non legalmente ed effettivamente separato competono, in relazione al reddito complessivo, gli importi che vengono indicati nello schema successivo:

Reddito complessivo

Detrazione

Note

Fino a 15.000 euro

800 euro meno [ 110 x (reddito complessivo : 15.000)]

se il rapporto è = 1 detrazione compete per 690 €.
se il rapporto è = 0 la detrazione non compete

Da 15.000 euro a 40.000 euro

690 euro

Da 40.001 euro a 80.000 euro

690 euro x [(80.000 – reddito complessivo) : 40.000]

se il rapporto è = 0 la detrazione non compete


Le detrazioni sopra indicate sono elevate in rapporto al reddito complessivo:

Reddito complessivo

Incremento detrazione

da 29.000 a 29.200 euro

euro 10

da 29.200 a 34.700 euro

euro 20

da 34.700 a 35.000 euro

euro 30

da 35.000 a 35.100 euro

euro 20

da 35.100 a 35.200 euro

euro 10


Per ciascun figlio a carico, compresi i figli naturali riconosciuti, i figli adottivi e gli affidati o affiliati, sono previste detrazioni teoriche che cambiano in relazione all’età, al numero ed al disagio e sono soggette anch’esse all’applicazione di una formula legata al reddito complessivo del dipendente.
La detrazione per figli è ripartita nella misura del 50% tra i genitori non legalmente ed effettivamente separati ovvero, previo accordo tra gli stessi, spetta al genitore che possiede un reddito complessivo di ammontare più elevato e non può essere liberamente ripartita come avveniva nel passato.

IMPORTO TEORICO DELLE DETRAZIONI PER FIGLI:

  • 800 euro; base per ogni figlio
  • 100 euro; aumento per ogni figlio di età inferiore ai tre anni
  • 220 euro; aumento per ogni figlio portatore di handicap ai sensi dell’art. 3, legge 104/1992
200 euro; aumento per ogni figlio dei contribuenti con più di tre figli a carico a partire dal primo


Se andate in crisi in mezzo alla miriade di numeri, termini e dati, non preoccupatevi...

Nel web c'è un interessante servizio interattivo per scoprire se, con l'introduzione della nuova Legge finanziaria, ci saranno dei cambiamenti nella busta paga.

Cliccando qui, infatti, potete scoprire - per ogni casella segnalata in blu, il significato del dato informativo.


A presto!


venerdì 7 dicembre 2007

L'Unione Europea: la nuova Cassa del Mezzogiorno...

Riprendo in parte un articolo apparso sul blog di Beppe Grillo... l'ennesima dimostrazione che quì, invece di andare avanti, torniamo indietro...

L’Italia versa alla UE circa 12/13 miliardi di euro ogni anno. I miliardi finiscono in un fondo comune che viene ripartito a favore delle aree in via di sviluppo. A noi tornano indietro circa 8/9 miliardi.

Dove vanno?

Quasi tutti a tre regioni: Campania, Calabria, Sicilia. I fondi europei, che sono soldi pagati con le nostre tasse, fanno quindi il viaggio Roma-Bruxelles-Napoli (o Palermo o Catanzaro). Un viaggio di sola andata senza responsabilità politiche di un singolo ministro della Repubblica.

Le regioni del Sud, grazie alla politica comunitaria e alle decine di miliardi di euro ricevuti nel tempo, si sono sviluppate. La criminalità organizzata e le lobby politiche si sono evolute in società multinazionali integrate.

E i 4/5 miliardi di euro di differenza non utilizzati per l’Italia?

Vanno alle nazioni “povere”, di solito i nuovi ingressi nella UE. Come ad esempio la Romania che nel 2007/2013 riceverà 28/30 miliardi di euro per il suo sviluppo.

E chi contribuisce al suo sviluppo?
I baldi imprenditori italiani!

L’Italia ha 22.000 imprese in Romania, è il primo partner commerciale. Un’impresa italiana che si stabilisce in Romania ha degli indubbi vantaggi: basso costo del lavoro, tassazione favorevole e accesso ai finanziamenti europei. Poi, magari, il prodotto lo rivende come “Made in Italy” guadagnando più di prima.

Quindi, ricapitolando...

Chi rimane in Italia è tartassato, paga le tasse in anticipo e non ha finanziamenti dallo Stato.
E allora che fa? Va all’estero, con i soldi degli italiani... quelli che sono avanzati dall’elemosina al nostro Sud da parte della nuova Cassa del Mezzogiorno che oggi si chiama UE.

E’ un mondo alla rovescia...


Fonte: www.beppegrillo.it

sabato 1 dicembre 2007

Allarme per i tassi variabili: in un solo giorno l'Euribor da 4,1 a 4,8%!

In un solo giorno l'Euribor a un mese è salito di 64 punti base, da 4,169% di ieri a 4,809% di oggi, il valore più elevato dal maggio 2001. Un rialzo che ha colto di sorpresa molti, che negli ultimi giorni proponevano ancora mutui e prestiti a tasso variabile, alcuni, come Ing direct, puntando proprio sull'Euribor a un mese, che è il valore più basso di riferimento. La scadenza a 2 mesi è stata fissata a 4,781% da 4,739% e l'Euribor a tre mesi a 4,776% da 4,743%. Era sceso a 4,60% un mese fa.

Il motivo di questa improvvisa impennata, dicono gli esperti, è da ritrovare nelle aspettative piuttosto fosche dell'economia europea nel prossimo anno: il valore dell'Euribor a un mese, infatti, è determinato dalla Federazione bancaria europea che raccoglie le indicazioni di un panel di banche europee ed inglesi circa le loro quotazioni nella mattinata sulle singole scandenze. Significa che a gennaio 2008 queste banche e tutti gli indicatori europei, prevedono ancora problemi di liquidità.

Salito anche il tasso interbancario a due mesi.

Da quando, nel settembre scorso, la Bce aveva deciso di non aumentare i tassi, fissando il tasso interbancario al 4%, l'Euribor a tre mesi, che è il più utilizzato per calcolare i mutui e i prestiti variabili, era salito da 4,3 a 4.6 e poi a 4.8 in ottobre, per poi ridiscendere al 4,60% a novembre.

Oggi la doccia fredda. Tassi caldissimi, che hanno fatto lanciare l'allarme da tutti i paesi europei: la BCE non pensi di fare salire ancora il tasso di riferimento, ma anzi faccia un passo indietro. Questa la richiesta da Francia, Spagna e anche dalla Germania, dove l'indice Zew (www.zew.de) ha segnalato una crisi economica prevista nel 2008 sia in Europa che nell'est europeo (mentre l'anno scorso aveva segnalato esattamente il contrario!)

Quindio, per chi ha un mutuo a tasso variabile... momenti difficili a fine anno!

Per chi sta sottoscrivendo un mutuo, forse è ancora una volta preferibile valutare l'idea di un tasso fisso: l'indice Irs, infatti, per la prima volta è più basso dell'Euribor...

venerdì 23 novembre 2007

Draghi spinge le banche italiane a fusioni oltre confine


E’ esaurita la fase delle fusioni nazionali, le banche italiane devono ora guardare all’estero. E’ quanto ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in un discorso sulle profonde trasformazioni finanziarie dell’ultimo decennio tenuto al Center for Financial Studies.


“La concentrazione nazionale che prevale in Europa, malgrado alcune operazioni molto visibili – ha detto Draghi - potrebbe avere raggiunto il suo limite. In molti Paesi la quota di mercato delle banche più grandi è già elevata, ed è improbabile che le autorità antitrust autorizzino ulteriori fusioni”.


Insomma, le fusioni e acquisizioni bancarie in Europa dovranno essere sempre più internazionali. Anche per effetto della variabile valutaria. “Le stesse forti variazioni dei cambi – ha ricordato il governatore - potrebbero indurre a fusioni e scalate internazionali”. Un riferimento interpretabile come un invito verso un’espansione in terra statunitense dopo i record dell’euro nei confronti del biglietto verde (stanotte l’euro/dollaro è giunto a 1,4966).


Bisognerà però attendere, almeno nel pensiero di Draghi, che il sistema esca dalle attuali turbolenze: “I recenti sviluppi sui mercati finanziari – ha spiegato - porteranno probabilmente a divergenze nei risultati delle banche e una volta che tornerà la calma stimoleranno un consolidamento internazionale”. Proprio ieri su questo fronte la francese Natixis ha deliberato un finanziamento di emergenza di 1,5 miliardi di dollari per la sua controllata statunitense Cifg, rimasta coinvolta dalla crisi subprime.


E proprio parlando della crisi, Draghi ha chiarito che occorreranno ancora due o tre mesi per valutarne pienamente gli effetti. La cartolarizzazione dei crediti, secondo Draghi, avrebbe mostrato “alcune crepe”, sottolineando comunque che “è troppo utile a tutti i protagonisti per essere abbandonato.


Draghi ha poi voluto spendere parole per il massimo rigore da parte delle istituzioni monetarie mondiali, ricordando che “le banche centrali cercano di evitare le sorprese, e di essere prevedibili in modo da ridurre l’incertezza e la volatilità dei mercati finanziari. Ma le loro azioni devono essere dettate dal quadro economico non dalla visione degli operatori di mercato”.


...Un richiamo preciso dunque alle banche centrali ad essere più forti delle tensioni sui mercati finanziari e al mantenimento della fedeltà verso gli obiettivi istituzionali.

giovedì 22 novembre 2007

Mutui da record, tasso medio al 5,71%

Non si ferma la corsa del tasso sui mutui concessi alle famiglie per l'acquisto di abitazioni. Il dato medio rilevato dall'Abi si è attestato al 5,71% a ottobre, nuovo massimo da cinque anni.

A settembre il dato era stato pari al 5,63%, mentre nell'ottobre del 2006 i tassi erano ancora fermi al 4,74%. Il minimo storico era invece stato toccato nel luglio 2003 con il 3,58%. Il dato di ottobre, segnala il Bollettino mensile di Palazzo Altieri, è «influenzato anche dalla variazione della composizione fra erogazioni a tasso fisso e variabile».

RINEGOZIAZIONE - Intanto l'Abi fa un passo in avanti sul tema relativo al costo dei mutui . «Il Comitato esecutivo - ha detto il presidente Corrado Faissola incontrando i giornalisti al termine della riunione - ha affrontato il tema delicato della portabilità e della rinegoziazione dei mutui», nell'ottica di non andare a incidere sul comportamento di mercato delle banche. In particolare, ha spiegato Faissola, «sul tema delicato dei costi, l'Abi raccomanda ai propri associati che questi siano assunti dalla banca subentrante». Così come i costi di «eventuali penali derivanti dall'estinzione anticipati nei mutui».

REAZIONI - Insomma, non proprio un messaggio limpido e definitivo, ma una «raccomandazione» a non gravare i consumatori di costi ulteriori per la portabilità (ovvero sul trasferimento dei mutui presso un'altra banca) e la rinegoziazione. Costi non annullati, però, e che dovrebbero gravare sulla banca subentrante. Ma qual è stata la reazione delle associazioni dei conusmatori: «È una vittoria dell'unità delle associazioni che fin dall'inizio hanno interpretato l'articolo 8 della legge 40/2007 nel senso del costo zero per la portabilità dei mutui», afferma il presidente del Movimento Difesa del Cittadino, Antonio Longo. «È giusto che una banca che vuole guadagnare clienti offra ai sottoscrittori dei mutui la portabilità a costo zero, che significa accollarsi l'eventuale penale, i costi del trasferimento dell'ipoteca e dell'attivazione del nuovo mutuo», conclude Longo.

IL CODACONS - Al riguardo però il Codacons esprime le proprie perplessità: «Non vorremmo che la deliberazione dell'Abi sia una astuta manovra per frenare l'emendamento proposto dal Codacons e varato pochi giorni fa dalla Commissione Finanze della Camera, e che impone l'assoluta gratuità del trasferimento dei mutui», afferma il presidente dell'organizzazione dei consumatori, Carlo Rienzi. «Se davvero l'Associazione Bancaria ha a cuore gli interessi degli utenti, allora lo dimostri sostenendo assieme a noi l'emendamento in questione. Nell'attesa di sapere se l'Abi accetta o meno la sfida, la nostra posizione - conclude Rienzi - è fortemente scettica».

ANTITRUST - Amche il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, parlando a margine di un convegno di Adiconsum, ha detto che «le banche non hanno bisogno di tante raccomandazioni. Qualsiasi soluzione per la portabilità può andar bene purché non si impongano costi diretti o indiretti ai clienti».

La telenovela continua...

mercoledì 21 novembre 2007

In Borsa scende il freddo: meno società alla quotazione.

Chi ha paura della crisi dei mutui subprime?

La pioggia di vendite che si è abbattuta sulle Borse di mezzo mondo e che ha depresso i listini e in particolare i titoli delle banche, non ha fermato la corsa delle matricole. O meglio... in parte l’ha frenata, come testimonia uno degli ultimi studi sul numero delle Ipo, ma non l’ha arrestata. Tanto che soltanto pochi giorni fa il ceo del London Stock Excanghe, Clara Furse, ha potuto presentarsi alla comunità finanziaria per la prima trimestrale dopo la fusione con Piazza Affari con un record di tutto rispetto; nel corso del 2007 sono state fino ad ora 72 le ammissioni al listino, il doppio rispetto all’anno precedente e 52 Ipo internazionali, più di quanto abbiano fatto Nyse Euronext (l’alleanza tra le Borse di New York e Parigi), Nasdaq e Deutsche Borse messi insieme.

Ma non c’è dubbio che la correzione in atto sui mercati a partire da ferragosto abbia inficiato le performance delle nuove matricole. Come per esempio sta avvenendo a Piazza Affari. Se prima dell’estate erano stati 26 i debutti a Palazzo Mezzanotte, di cui ben 10 nel mese di luglio, negli ultimi tre mesi le Ipo sono state soltanto due. E della dozzina di società che hanno annunciato la loro ferma volontà di quotarsi entro la fine dell’anno, soltanto quattro sono effettivamente sulla rampa di lancio. Le due coraggiose corrispondono al nome di Piquadro e Damiani: entrambe hanno, però, dovuto fare i conti con il periodo difficile, visto che la società del settore pelletteria ha guadagnato un modesto 4% dal prezzo di collocamento, mentre la casa di gioielli, l’ultima ad approdare sul listino l’8 novembre scorso, sta recuperando la parità dopo una prima giornata di contrattazione terminata con un perentorio 10%.

A sfidare le incertezze del mercato sono ora arrivate FriEl Green Power (specializzata nella realizzazione di impianti per le energie alternative) e Finaval (trasporti via mare), entrambe approdate a Piazza Affari lunedì 12 novembre. Mentre il 26 novembre sarà la volta di Maire Tecnimont, nata da due costole del gruppo Fiat e della ex Montedison, che di mestiere si occupa di progettare e realizzare impianti tecnologici e infrastrutture ad alto livello.
Entro la metà di dicembre, ultima finestra prima della pausa natalizia, è certo l’arrivo in Borsa del gruppo editoriale Il Sole 24 Ore, nonché della società di produzione televisiva Rainbow: oltre ad aver lanciato il fenomeno Winx (cartoni animati di sei ragazze che studiano da fatine) ha suscitato non poco interesse l’ingresso nel capitale al 2% del finanziere tunisino Tarak Ben Ammar, consigliere di Mediobanca.

Tra la fine dell’anno e l’inizio del prossimo abbiamo poi ancora una pattuglia di candidati che stanno espletando le ultime procedure con la Consob tra cui Grandi Salumifici Italiani e Molmed, la società di biotecnologia nata da uno scorporo dell'Istituto Scientifico San Raffaele.

Si tratta, comunque, di società di dimensioni contenute. La Borsa Italiana, del resto, è lo specchio della realtà economica italiana, lontana dalle maxi Ipo della Cina dove la Petrochina e Alibaba.com hanno raccolto miliardi di dollari superando per capitalizzazione i colossi del mondo occidentale come Exxon.

Come ha spiegato solo pochi giorni fa l'amministratore delegato di Borsa Italiana Massimo Capuano, l'alleanza con Londra potrà indurre ora alcune società a quotarsi ottenendo così una visibilità maggiore sui mercati finanziari internazionali.

Dunque, il futuro di Piazza Affari sembra sempre più quello di spingere le Pmi alla quotazione...

giovedì 8 novembre 2007

I tagli della FED: aiutano la Borsa... ma senza averlo come obiettivo

Legare le mosse delle banche centrali alle fortune delle Borse è un esercizio costante nei tempi di crisi. Ad esso non si sottraggono mai gli investitori stessi, che guardano alla Federal Reserve e alla Bce come ai più naturali salvagenti che il sistema può, anzi deve, offrire per tenere a galla le quotazioni crollate.

L'abbiamo visto in occasione dell'ultima crisi dei mutui subprime in estate: poichè i listini sono scesi in picchiata (prima di risalire e poi di ricadere ancora in autunno), i risparmiatori con le azioni che dimagrivano nei loro portafogli, e i trader di borsa che non guadagnavano più per il calo dei volumi degli scambi, hanno chiesto in coro alle autorità di immettere liquidità nel mercato.

La FED ha fatto due tagli consecutivi, ed ora è nella situazione difficile di sostenere che non li ha fatti su pressione della piazza borsistica. Così ieri abbiamo sentito, da un autorevole membro della Federal Reserve cha ha tenuto un pubblico discorso, che le aspettative degli investitori e le politiche della banca centrale americana non sono legate da un rapporto di causa ed effetto. Frederich Mishkin, ha insistito in modo molto chiaro che i due tagli di settembre e di ottobre, il primo di 50 e il secondo di 25 centesimi, sono stati decisi per ridurre il rischio economico sull'economia, cioè per erigere una difesa contro la possibilità di una recessione, che comporterebbe un aumento della disoccupazione e un peggioramento sociale complessivo.

La puntualizzazione di Mishkin è di principio.
La Fed non ha come scopo, quando taglia i tassi, di diminuire i rischi per i risparmiatori. I quali, se perdono dei soldi a causa delle decisioni sbagliate che essi stessi prendono quando sottovalutano il rischio incorporato nei prezzi di asset che sono saliti al di là della soglia che diventa "bolla", non devono aspettarsi favori. Per essere ancora più esplicito, Misckin ha aggiunto che la FED è impotente nel salvare i risparmiatori, perchè le politiche di intervento monetario possibili, dal taglio del tasso di sconto agli approvvigionamenti mirati alle banche a tassi agevolati, fino al più noto taglio del tasso generale, sono proprio concepite e finalizzate per proteggere Main Street (l'economia) e non Wall Street (la Borsa).

Gli investitori devono sapere che non possono contare ciecamente sulla FED per riparare i guasti provocati dalla ingordigia o dalla incapacità nell’esporsi a rischi di correzioni fortissime dei prezzi delle azioni, delle obbligazioni, o delle case quando si compra puntando sulla crescita inarrestabile dei prezzi.

Il messaggio è: chi è troppo ottimista sul fatto che le quotazioni debbano solo salire corre un rischio, e deve rassegnarsi a pagare lo scotto se la bolla scoppia. Troppo comodo credere che ci sia sempre un compratore di ultima istanza. Il problema per la FED è che qualche volta gli effetti benefici su Main e Wall Street si sovrappongono, e quindi la credenza sul ruolo e sulla funzione salvifici della banca centrale è destinata a non morire mai, anche dopo i più rigorosi dei distinguo teorici.

mercoledì 7 novembre 2007

Schiavi moderni

La legge Maroni, o legge 30, doveva essere subito abolita da questo Governo. Nel programma l'Unione si era impegnata a cambiarla radicalmente con i suoi elettori.
Non ha mantenuto le promesse.
Ora anche gli organismi internazionali cominciano a chiederci perchè stiamo trasformando gli italiani in Schiavi Moderni.

Il professor Mauro Gallegati scrive:
Con il pretesto della flessibilità per modernizzare il mercato del lavoro, la legge 30 ha creato una situazione di precarietà preoccupante. Per le statistiche ufficiali, i contratti a termine sono diventati quasi l'unico modo che hanno i giovani di trovare un impiego ma poi è raro che questi si traducano in lavori stabili, con un rapporto di 1 a 25!
Stanno aumentando le distorsioni del mercato del lavoro, specialmente nel Sud del Paese dove la diminuzione del tasso di occupazione ha raggiunto livelli allarmanti".
Sono le osservazioni della Commissione di esperti dell'International Labour Organisation, ILO, Agenzia delle Nazioni Unite per i diritti del lavoro.

È passata inosservata la notizia che il nostro Governo, tramite il ministro Damiano, è stato convocato in un'audizione speciale nel corso della 96° Conferenza internazionale del lavoro, a giugno a Ginevra, per discutere della situazione in Italia e degli effetti della legge 30, che ha suscitato non poche perplessità nella comunità internazionale: dai verbali dell'audizione italiana emerge con chiarezza "l'incompatibilità" delle riforme del governo Berlusconi rispetto alla Convenzione 122 sulle politiche del lavoro. La Convenzione, ratificata dall'Italia nel 1971, impone agli Stati membri l'adozione di "programmi diretti a realizzare un impiego pieno, produttivo e liberamente scelto" e in generale "l'elevazione dei livelli di vita, attraverso la lotta alla disoccupazione e la garanzia di un salario idoneo".

Per la Commissione composta da 20 giuslavoristi di tutto il mondo, "l'unico fine perseguito dal vecchio governo è la liberalizzazione del mercato del lavoro secondo un modello di contrattazione sempre più individualizzata, a discapito di politiche territoriali di sviluppo nell'industria e nella ricerca, fondamentali per assicurare competitività nei settori innovativi, anziché cercare di competere con le economie emergenti sul costo del lavoro".

La Commissione ha chiesto di rispettare la Convenzione 122 con "un ritorno alla centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato come forma tipica di occupazione", attraverso una concertazione che vada a beneficio dei lavoratori, in termini di condizioni salariali e di vita, e non solo delle imprese.

All'audizione dell'Ilo non ha partecipato il ministro Damiano, seppure convocato formalmente, ma Lea Battistoni, che al ministero è direttore generale del mercato del Lavoro. Dopo avere premesso che il nuovo esecutivo è in carica da troppo poco tempo per mostrare già i risultati delle proprie politiche, Battistoni ha rassicurato la Commissione spiegando che le richieste dei sindacati erano state prese in considerazione e che non c'è motivo di preoccuparsi...!

A mio avviso i motivi ci sono, eccome! ...Per voi no?

martedì 30 ottobre 2007

I mercati emergenti

I mercati emergenti hanno superato con disinvoltura la crisi dei subprime americani e ora si muovono di nuovo sui massimi.

Sotto il peso della crisi di agosto, le piazze di Cina, India e Brasile sono affondate più delle Borse tradizionali ma il recupero è stato altrettanto forte tanto che oggi l’indice Msci Emerging Markets, il barometro che misura l’andamento di tutti i paesi emergenti, ha segnato un nuovo record e sorpassato le principali piazze europee.
Alcuni di questi Paesi sono diventati più indipendenti, anche se hanno risentito degli scossoni di metà agosto, hanno dimostrato buoni fondamentali e si sono ripresi molto velocemente.

Cosa è cambiato?

Oggi sono Paesi più emersi che emergenti e rispetto al passato stanno dimostrando di essere più maturi, un ruolo fondamentale lo gioca l’andamento delle economie di questi Paesi e la loro forte crescita. Di fatto molti esperti e anche il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno da poco rivisto al rialzo le già alte previsioni di crescita. Per l’economia mondiale l’Fmi stima una crescita media del 5,2% per quest’anno. Lo stesso valore è previsto anche per il 2008. L’anno prossimo sono invece attesi incrementi più sostenuti rispetto alla media mondiale per Paesi come Cina (10,5%), India (8,4%) e Russia (6,8%). Sotto la media resteranno invece Giappone (2%) e Stati Uniti (2% quest’anno e 2,8% nel 2008).
Non solo. Secondo gli addetti ai lavori, a favorire i mercati azionari di queste aree contribuirà anche il recente taglio dei tassi della Fed che ha aiutato a creare un eccesso di liquidità sui mercati e a beneficiarne saranno proprio le aree emergenti.
Non mancano tuttavia i rischi che sono legati a un possibile rallentamento dell'economia Usa e al conseguente calo dei consumi americani.

Tra tutti gli emergenti qual è il Paese da favorire?

Secondo gli addetti ai lavori, un portafoglio di azioni emerging non può prescindere da un investimento sulla piazza cinese: soltanto in Cina sono attesi investimenti nel settore per 400 miliardi di dollari nei prossimi tre anni anche per effetto delle imminenti Olimpiadi.

Quindi, anche se la Cina è già salita molto c’è ancora spazio verso l'altro soprattutto grazie alla solidità delle aziende che possono contare su un buon management e su buoni bilanci aziendali.

L'elevata competitività, si sa, dipende molto dal basso costo del lavoro... ma questa è un'altra storia!

A presto!

martedì 23 ottobre 2007

I giovani guadagnano il 35% in meno dei padri...

Ebbene si...

I giovani cominciano, come è normale che sia, con uno stipendio più basso ma non hanno poi modo, andando avanti con gli anni, di recuperare con aumenti di salario. Nel 2002 gli stipendi d'ingresso sono così tornati a vent'anni prima, diminuendo del 35%.

Il quadro sulla situazione dei salari emerge da uno studio della Banca d'Italia, dal titolo "Il divario generazionale: un'analisi dei salari relativi ai lavoratori giovani e vecchi d'Italia".

«Il salario dei lavoratori dipendenti più giovani si è ridotto negli anni Novanta rispetto a quello dei lavoratori più anziani. In particolare, il calo del salario d'ingresso non è stato controbilanciato da una carriera e, quindi, una crescita delle retribuzioni più rapida. La perdita di reddito nel confronto con le generazioni precedenti risulta dunque in larga parte permanente», sottolinea lo studio, osservando come «in un quadro di moderazione salariale», come quello degli ultimi anni, sembra che «l'aggiustamento delle retribuzioni sia stato asimmetrico e abbia penalizzato maggiormente le prospettive dei lavoratori neoassunti rispetto a quelle dei lavoratori impiegati».

Alla fine degli anni Ottanta le retribuzioni nette medie mensili degli uomini fra i 19 e i 30 anni «erano del 20% più basse di quelle degli uomini fra i 31 e i 60 anni. Nel 2004 la differenza era quasi raddoppiata in termini relativi, salendo al 35%», osserva lo studio, mettendo in evidenza che un andamento simile è osservato anche per le retribuzioni orarie, «che non risentono della crescente diffusione del lavoro part-time, ed è riscontrabile a tutti i livelli di istruzione».

La dinamica del differenziale generazionale riflette il «declino dei salari d'ingresso, presumibilmente connesso ai mutamenti della legislazione sul mercato del lavoro».

Per favorire il calo del tasso di disoccupazione tra i giovani, infatti, negli anni passati è stato introdotto un nuovo tipo di contratto che ha consentito alle imprese di pagare meno i neoassunti, come «compensazione per gli obblighi di training» dei giovani.

Gli autori dello studio stimano che «nel decennio 1992-2002 il salario mensile iniziale sia diminuito di oltre l'11% per i giovani entrati sul mercato del lavoro fra i 21 e i 22 anni, presumibilmente diplomati (da 1.200 euro mensili a meno di 1.100 euro); il calo è dell'8% per i lavoratori fra i 25 e i 26 anni, potenzialmente laureati (da 1.300 a 1.200 euro mensili). per entrambe le classi di età, i salari d'ingresso, sono tornati nel 2002 ai livelli di 20 anni prima».

A rendere ancora più evidente il divario generazionale, anche in termini previdenziali oltre che di busta paga, sono poi intervenute le riforme delle pensioni. «I giovani lavoratori sembrano dover sopportare elevati contributi sociali e alte tasse, un rallentamento della crescita dei salari reali e una bassa copertura pensionistica, insieme a una carriera instabile.

Questo è abbastanza - conclude lo studio - per giustificare crescenti preoccupazioni, anche in presenza di una crescita dell'occupazione».

...Un'analisi che rende giustizia a quei giovani che, definiti "bamboccioni" dal ministro dell'Economia, con una battuta ritenuta dai i più infelice, spiegherebbe il perché i ragazzi non ce la fanno economicamente a staccarsi dalla famiglia d'origine.

venerdì 19 ottobre 2007

Crisi dei subprime: cosa non funziona

Gli attori del mercato finanziario hanno approfittato della creazione di barcollanti strumenti di debito ma non pagheranno il grosso del costo della crisi e le perdite ricadranno sulle spalle degli investitori finali. Vanno corrette tre cose: le stime del credito, valutazioni della negoziabilità degli asset e la trasparenza nel mercato al dettaglio delle attività finanziarie.

Le oscillazioni, stile montagne russe, dei mercati finanziari che seminano in questi giorni il panico nei mercati sono molto di più di una inaspettata correzione dopo un periodo di crescita incontrastata che durava da 5 anni.

L'Economist ha scritto che questo è un buon periodo per una stretta creditizia e ha lodato i vantaggi di condizioni più rigorose, seguendo la saggezza convenzionale secondo cui le crisi sono utili perché conducono a una più corretta valutazione delle merci e delle attività finanziarie.


L’Economist ha ragione? C'è una caratteristica particolare nelle ultime crisi (e in particolare in questa) che rende questa posizione meno accettabile, almeno dal punto di vista di chi sopporta oggi le perdite e di chi ha intascato i guadagni durante la fase di boom.

Ci sono quattro caratteristiche dell’attuale sistema finanziario che vale la pena ricordare:

1) L’enorme crescita delle attività finanziarie e derivati in tutto il mondo.
Alla fine del 2005 le attività finanziarie totali si attestavano al livello sorprendente di 3,7 volte il PIL mondiale. L'ammontare nozionale di tutti i derivati era doppio del volume di tutte le attività finanziarie, il che significa 11 volte il PIL globale. Ricordiamo che i derivati finanziari non esistevano fino a trent’anni fa.

2) Lo storico basso livello dei tassi d’interesse negli ultimi anni, dalla metà degli anni ‘90 (come effetto della politica monetaria condotta da Greenspan ed il suo tentativo di alimentare la crescita del mercato finanziario).
Come conseguenza delle condizioni monetarie favorevoli, anche il prezzo per il rischio richiesto dal mercato è rimasto a livelli molto bassi.

3) Il peso crescente delle azioni e dei bond in percentuale del totale delle attività finanziarie (quindi la diminuzione dei prestiti dalle banche e dagli altri intermediari finanziari).
A livello mondiale (e nell'Unione Europea), i prestiti bancari costituiscono il 50 % del totale delle attività finanziari, ma negli Stati Uniti ed in Giappone il rapporto è molto più basso. Negli Stati Uniti soltanto 1 dollaro su cinque è preso a prestito da una banca.

4) La diminuzione dei bond governativi (cioè degli asset risk-free) rispetto al debito totale.
Mentre il rapporto medio a livello mondiale è del 50 % e in Europa del 35 %, in Nord America è del 26 %, con una tendenza al ribasso. Gli ultimi due punti stanno a significare che i portafogli delle famiglie sono sempre più composti da titoli soggetti sia a rischio di mercato che a rischio di credito.

Questi sono gli ingredienti della magia dell’innovazione finanziaria degli ultimi decenni:
in breve, le banche hanno creato un volume sorprendente di debito, frazionandolo in vari tipi di strumenti finanziari, con gradi diversi di garanzia.


Dove sta il rischio?

Questi strumenti sono state comprati da una vasta gamma di banche più piccole, fondi pensioni, compagnie di assicurazione, hedge funds, altri fondi e anche investitori privati, tutti incoraggiati ad investire dal rating generalmente alto dato a questi strumenti.

Secondo una importante scuola di pensiero, questo finanziamento "arm-length" è il più efficiente per collocare le risorse.

...Altri possono ricordare Dickens il quale molti anni fa definì il credito come un sistema "con cui una persona che non può pagare trova un'altra persona che non può pagare che garantisce che può pagare".

In effetti, i sistemi finanziari globali si sono dimostrati molto elastici agli shock reali e finanziari negli ultimi venti anni ma ciò che preoccupa soprattutto le banche centrali è che – diversamente da quanto accadeva nei vecchi tempi bank-based – semplicemente non sanno dove sta il rischio!
" …Posto che le grandi banche siano riuscite a distribuire in modo più diffuso i rischi insiti nei prestiti da loro concessi, chi sono i soggetti che attualmente detengono tali rischi, e quali sono le loro capacità di gestirli? La verità è che non lo sappiamo." (dichiarazione estratta dalla Relazione della Banca per i Regolamenti Internazionali – Giugno 2007).

...Onesto, ma assai preoccupante!

Chi ci perde?

La sola cosa che sappiamo è che le perdite cadranno sulle spalle degli investitori finali, e non saranno condivise con le banche come è successo in forme di finanza in cui gli intermediari assumevano un peso superiore e dunque sopportavano direttamente un rischio maggiore. Il punto è che i profitti delle banche negli ultimi venti anni hanno raggiunto record storici. Il rendimento del capitale netto è stato normalmente a livelli con due cifre (la prima è preferibilmente due) e sarà probabilmente solo intaccato dalla correzione in atto sui mercati.

In altre parole… la pazzia del credito è finita, una dieta era più che necessaria, ma quelli che dovranno tirare la cinghia non sono quelli che si sono ingrassati negli anni passati!


L’allocazione del finanziamento

L'efficienza allocativa del finanziamento "arm-length" merita almeno un secondo giudizio. Le implicazioni di policy di ciò che è sotto i nostri occhi sono almeno tre:

1. Ancora una volta, è emerso un problema di rating.
Le valutazioni del rischio del credito sono stato fatte su supposizioni troppo ottimistiche, usando dati non sempre statisticamente significativi ed ignorando sistematicamente la possibilità di distribuzioni statistiche irregolari in corrispondenza di eventi estremi. Quando le banche non si fanno carico dei rischi sui loro libri, ma li vendono soltanto, la frammentazione delle responsabilità conduce a ciò che L'Economist ha definito come "troppo denaro prestato a condizioni troppo convenienti e troppo facilmente a troppe persone".
Le banche non dovrebbero disfarsi dei rischi cosí facilmente: una porzione del rischio (per esempio usando la regolamentazione sui requisiti di capitale) dovrebbe rimanere nei bilanci delle banche.

2. I titoli emessi erano molto meno negoziabili di quanto le banche avevano fatto credere ai loro clienti. I bond più sofisticati venivano scambiati raramente; alcuni erano fatti su misura dalle banche d'investimento per clienti specifici e non erano mai commercializzati. Il mark-to-market (la valutazione ai prezzi di mercato) era quindi solo la conseguenza di una valutazione soggettiva frutto di complicati modelli costruiti al computer e di ipotesi altrettanto soggettive.
La formazione del prezzo da parte del mercato, il vero cuore di un mercato finanziario basato sui titoli era semplicemente un'illusione!
Gli investitori finali non sono adeguatamente protetti quando i loro titoli sono trattati in mercati sottili e non-regolamentati.

3. C’è un problema di trasparenza nel mercato della vendita al dettaglio delle attività finanziarie. Poiché i prodotti finanziari stanno diventando sempre più sofisticati, la maggior parte degli investitori non è consapevole del rischio effettivamente sopportato.
Ci sono due reazioni ipocrite che emergono:
chiedere maggior trasparenza e una maggior educazione finanziaria.

La prima strada dovrebbe condurre soltanto a un ulteriore appesantimento degli attuali prospetti informativi, già oggi leggibili solo da chi ha conseguito un PhD in finanza (meglio se di un'annata molto recente).

La seconda strada è perfino più assurda poiché è semplicemente impossibile colmare il divario tra il livello attuale di educazione finanziaria ed il livello di finanza da scienziato nucleare utilizzata negli attuali prodotti!

La sola soluzione è usare regolamentazioni (e in particolare le regole di comportamento degli intermediari) in modo da rendere più conveniente per gli intermediari vendere prodotti finanziari semplici. Un vasto campo di ricerca (particolarmente nel Regno Unito, promosso dal Ministero del Tesoro e dalla FSA, l’organo di vigilanza) prova che la filosofia dell’attuale regolamentazione crea una forte propensione verso la complessità e l'opacità.


In conclusione...

E’ arrivato il momento di cambiare rotta e creare adeguati incentivi affinché gli intermediari finanziari siano spinti a vendere prodotti più semplici agli investitori finali.
Solo a questo punto un più alto livello di educazione finanziaria sarà efficace. E’ bene anche che gli economisti finanziari guardino più attentamente e in una maniera più dickensiana a ciò che succede all'ultimo anello della "magia" della creazione del credito.

Fonte: M. Onado (La Voce)

giovedì 18 ottobre 2007

Banche d'Affari...

Le gravi distorsioni sul mercato del credito sono la vera questione su cui dobbiamo confrontarci... Giudizio netto. Parole dure. Chi le ha pronunciate? Un attivista no global? Un sindacalista? Un'autorità di controllo sulle Borse, preoccupata per la stabilità a breve termine dei mercati? Risposte sbagliate.
A sorpresa, il pulpito da cui è arrivata questa severa presa di posizione sui guasti del sistema è quello del più potente banchiere d'affari del mondo. Lloyd Blankfein, numero uno della statunitense Goldman Sachs, marchio vincente della finanza internazionale, ha pensato bene di esternare le sue valutazioni sulla crisi di queste settimane: "Abbiamo sottovalutato i rischi", ha detto in sostanza Blankfein. E questo errore, ammette il banchiere, ha finito per alimentare quella bolla speculativa che secondo molti osservatori minaccia ancora di provocare disastri a catena sui mercati dopo gli scossoni della scorsa estate.

Errore? A ben guardare, quello che Blankfein, con il senno di poi, definisce un errore ha funzionato per anni come un gigantesco moltiplicatore di profitti per Goldman Sachs e anche per le sue dirette concorrenti. Nomi altisonanti: Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman, per citare solo le principali tra le banche d'investimento internazionali. Questi colossi della finanza globale sono riusciti a cavalcare alla grande il boom dei cosiddetti prodotti derivati. In sostanza, hanno costruito e venduto a peso d'oro strumenti finanziari tanto complessi che diventa praticamente impossibile valutarne la rischiosità e, di conseguenza, anche il prezzo. .

Morale: le banche hanno fatto soldi a palate scaricando sul mercato bombe finanziarie a orologeria.

Esemplare il caso di Italease.

A fine luglio la Banca d'Italia, con una serie di telefonate informali, ha richiamato all'ordine alcuni istituti, tra cui Deutsche Bank e Bnp-Paribas, che a partire dal 2005 avevano contribuito ad allestire l'arsenale di prodotti derivati poi girati da Italease ai propri clienti. Nasce da qui il buco di quasi 500 milioni di euro nei conti semestrali della banca milanese. Solo che nella primavera scorsa, quando la crisi è esplosa, Deutsche Bank e gli altri erano già passati alla cassa, con guadagni complessivi per centinaia di milioni di euro. Un comportamento legittimo, ma giudicato probabilmente un po' troppo disinvolto dal governatore Mario Draghi. Corsi e ricorsi storici: Italease si appoggiava alla filiale londinese della Deutsche Bank. La stessa che a suo tempo fece ponti d'oro ai furbetti del quartierino, da Stefano Ricucci a Gianpiero Fiorani.

Per fare un altro esempio tutto italiano, anche gli enti locali si sono trasformati in una miniera di profitti per i grandi marchi della finanza internazionale. Le obbligazioni emesse da Regioni e Comuni hanno garantito percentuali di guadagno enormi (a volte addirittura a doppia cifra) per gli istituti che, oltre a fare da advisor per il collocamento dei titoli, hanno anche allestito l'impalcatura di prodotti derivati costruita attorno a queste emissioni.

Per contendersi questo redditizio (a dir poco) mercato sono scesi in campo operatori come l'americana Merrill Lynch e la giapponese Nomura, ma anche molti altri. Per dare un'idea delle dimensioni dell'affare, basta dire che l'anno scorso il valore complessivo di questo tipo di operazioni ha superato i 10 miliardi di euro. "Ma quasi mai", sottolinea Marco Bigelli, ordinario di finanza aziendale all'università di Bologna, "gli enti locali possiedono le competenze necessarie a valutare le proposte dei loro consulenti". Come dire: campo libero alle banche tra sospetti e dubbi di ogni tipo, che, in qualche caso, hanno dato il via anche a indagini amministrative.

L'intervento di Draghi nel caso Italease viene interpretato dagli addetti ai lavori come un segnale chiaro che le autorità di controllo hanno finalmente alzato la guardia. Spiega Marco Onado, ex commissario Consob e professore all'università Bocconi: "Le grandi investment bank hanno preferito limitarsi a facilitare l'emissione di strumenti sempre più sofisticati trasferendo il rischio agli investitori finali".

Per un po' il gioco ha funzionato.

Con i mercati finanziari inondati di liquidità grazie ai tassi d'interesse ai minimi storici, gli investitori erano convinti di guadagnare mettendosi al riparo dai rischi, mentre le banche gonfiavano il conto economico, poi il vento è cambiato...

lunedì 8 ottobre 2007

Nonostante le liberalizzazioni le banche continuano ad applicare costi ingiustificati

E' l’accusa delle associazioni dei consumatori.

«A 15 mesi dal primo pacchetto Bersani - avvertono Adusbef e Federconsumatori - la casta degli intoccabili banchieri, che vessa i risparmiatori, non ha applicato la legge, lucrando 5,7 miliardi di euro scippati ai correntisti».

Un monitoraggio rivela numerose violazioni su simmetria dei tassi, portabilità dei mutui, equità sulle penali dei vecchi mutui, rinegoziazione dei prestiti e spese di chiusura dei conti.

Riguardo alla simmetria dei tassi, il decreto Bersani obbliga le banche a un adeguamento automatico dei tassi bancari in contemporanea con le mosse della Bce. «In un anno - sottolineano Adusbef e Federconsumatori - la Bce ha effettuato 5 aumenti del costo del denaro, pari all’1,25%. Dopo le cinque decisioni dell’Eurotower le banche italiane hanno tempestivamente aumentato il costo del denaro su mutui, prestiti personali, fidi e finanziamenti, con una stangata di 1.350 euro l’anno su un modesto mutuo a tasso variabile, senza aumentare minimamente i tassi sui depositi». Questa elusione sistematica delle norme, secondo i consumatori, ha consentito alle banche un guadagno illecito pari a 5,7 miliardi di euro al 30 settembre, calcolato su un monte depositi di 682 miliardi di euro.

Per quanto riguarda la portabilità dei mutui, le banche monitorate da Adusbef e Federconsumatori «non hanno ancora applicato questo provvedimento, forse perchè consigliate dalla corporazione dei notai». «Banche distratte o in malafede - stigmatizzano le due associazioni - cercano di fare orecchie da mercante perfino su un accordo chiaro, che prevede sconti per tutti i mutui, sia fissi sia variabili contratti prima del 2001, con una penale massima dello 0,50% e con una clausola di garanzia dello 0,20% anche per quella penale massima dello 0,50%, che in tal caso diventa dello 0,30%». A più di cinque mesi dall’accordo, aggiungono, gli istituti di credito che avevano incassato penali non dovute fanno fatica a restituire il conguaglio ai consumatori: «Cedono solo dopo i reclami degli utenti e gli interventi delle associazioni, affermando di avere male interpretato la norma, prendendosi tutto il tempo per i rimborsi e provando anche ad addebitare commissioni illecite e non dovute».

L’applicabilità delle nuove norme sulla cancellazione automatica dell’ipoteca è espressamente prevista anche ai mutui estinti in precedenza all’entrata in vigore della legge, ma anche in questo caso, secondo Adusbef e Federconsumatori, gli istituti di credito continuano «a provarci, chiedendo da 400 e fino a 1.000 euro per una cancellazione dell’ipoteca che deve essere invece estinta gratuitamente alla fine del pagamento dell’obbligazione. Solo dopo interventi duri dell’Adusbef, banche che richiedevano il notaio per cancellare l’ipoteca promettono di estinguerla gratis».

Sarebbe infine illusoria la gratuità per la chiusura del conto corrente: «I costi di estinzione sono stati sostituiti da “oneri e spese di liquidazione interessi”... Cambia dunque la forma, ma non la sostanza...!

Occhi aperti!!!

lunedì 1 ottobre 2007

Le Borse chiudono un trimestre difficile.

Nell'ultima ottava sui listini ha dominato l'incertezza anche se tutto sommato la settimana è stata positiva. Gli operatori adesso aspettano i risultati aziendali e, nel frattempo, cercano di interpretare i dati macroeconomici.

Situazione macroeconomica difficile da interpretare, forte volatilità, pericolo subprime, poche idee di investimento. Anche l’ultima ottava di settembre ha seguito i temi che hanno caratterizzato il terzo trimestre dell’anno. E, preparandosi alla prossima ondata di risultati societari, gli investitori hanno preferito restare alla finestra.

L’indice Msci World, in cinque sedute ha guadagnato poco meno dell’1%.
(MSCI: Morgan Stanley Capital International, controllata da Morgan Stanley, una delle più famose banche d´affari statunitensi, è una società che dal 1970 realizza una serie di indici di carattere prevalentemente azionario, suddivisi in base a criteri geografici e settoriali. Ad oggi MSCI ha elaborato 51 indici a carattere nazionale e 57 indici geografici aggregati, che si suddividono in indici rivolti ai mercati sviluppati (Europa, Usa, Pacifico), in Mercati Emergenti (EM) e Tutti i Paesi (AC))


Stati Uniti
L’indice Msci North America nell’ultima ottava ha guadagnato circa lo 0,6%. Gli ultimi dati congiunturali danno una radiografia confusa dello stato di salute della prima economia mondiale. Secondo i numeri forniti dal Dipartimento del commercio ad agosto le spese al consumo sono cresciute dello 0,6% rispetto al +0,4% di luglio. In altre parole, le famiglie americane non si sono fatte spaventare dalla crisi finanziaria legata ai mutui subprime (quelli di bassa qualità) e hanno continuato a mettere mano al portafoglio. Gli effetti della turbolenza, commentano gli economisti, probabilmente si faranno sentire nei prossimi mesi.
Il dollaro nel frattempo ha toccato nuovi minimi contro l’euro: la moneta unica viene scambiata a 1,4189 contro il biglietto verde. Questo da una parte dovrebbe dare una mano alle aziende esportatrici di prodotti made in Usa, ma dall’altra aumenterà il costo di quelli importati. Più in generale l’appannamento della moneta americana indica un rallentamento dell’economia.

Europa
La situazione è simile nel Vecchio continente dove il relativo indice Msci è cresciuto dello 0,7%. Anche da questa parte dell’Atlantico la situazione macroeconomica non brilla. Secondo i dati elaborati dalla Commissione europea la fiducia di dirigenti d’azienda e consumatori a settembre è scesa a 107,1 punti contro i 109,9 segnati ad agosto. Segnali preoccupanti sono arrivati anche dal fronte dell’inflazione. I prezzi al consumo, sempre questo mese, sono cresciuti del 2,1% rispetto all’1,7% dei 31 giorni precedenti. Si tratta del risultato peggiore degli ultimi 13 mesi.
Nel frattempo la Banca centrale europea, a causa anche della crisi dei subprime americani ha tagliato le stime di crescita per l’area.
Secondo gli economisti il mix fra il rallentamento della congiuntura e la corsa dell’inflazione potrebbe far aumentare la paura di una stagflazione (situazione nella quale sono contemporaneamente presenti su un determinato mercato, sia un aumento generale dei prezzi, cioè l’inflazione, sia una mancanza di crescita dell'economia in termini reali, cioè la stagnazione economica). In questa situazione a sostenere le Borse ci pensano i titoli minerari e, più in generale, quelli legati alle materie prime. Si tratta, spiegano gli analisti, di settori il cui andamento è sganciato dal quadro macro e che in questo momento, grazie anche alla domanda da parte dei Paesi emergenti, rappresentano il classico porto sicuro per gli investitori.

Asia
L’indice Msci della regione nell’ultima ottava ha guadagnato il 3,2%. Merito, anche in questo caso, della corsa delle commodity che ha dato tonicità ai listini. Una mano l’ha data anche la Banca popolare cinese secondo cui l’economia del Paese del Drago quest’anno potrebbe crescere dell’11,6%. Insomma, dicono gli analisti, la situazione è buona. Ed essendo la Cina il volano dell’Asia, gli effetti positivi si faranno sentire anche sui conti delle aziende dell’intera area. Giappone Scenario più complicato nel Sol Levante.
L’indice Msci del Paese nell’ultima settimana ha guadagnato il 2,2%. Secondo i dati del Ministero dell’economia la produzione industriale a luglio è cresciuta del 3,4%, il massimo degli ultimi quattro anni. Contemporaneamente è aumentata la spesa al consumo (0,5%). Ad agosto, tuttavia, è aumentata la disoccupazione: +3,8% rispetto al 3,6% di luglio (minimo degli ultimi nove anni).
L’economia, insomma, nonostante i segni di recupero mostrati nei mesi scorsi, potrebbe tornare a zoppicare...

giovedì 13 settembre 2007

Ancora Opa...

Recenti operazioni societarie hanno ravvivato polemiche che parevano estinte - la ricerca dell’Opa ottima - e suscitato idee e proposte legislative in materia di corporate governance.

L’ultimo esempio è il disegno di legge su controllo delle società quotate - per contrastare il fenomeno delle cosiddette scatole cinesi, presentato da importanti senatori della maggioranza - che si occupa di Opa e gruppi piramidali.
In sintesi, la Consob potrebbe ridurre la soglia che fa scattare l’Opa dall’attuale 30 % fino al 15%; comunque, in caso di trasferimento di pacchetti superiori al 15%, potrebbe imporre limiti all’indebitamento della società per un periodo fino a tre anni.
Il disegno di legge prevede poi misure, senza equivalenti al mondo, tendenti a smantellare scatole cinesi e piramidi:
a) penalizzazioni fiscali sui dividendi e limiti alla deducibilità degli interessi passivi per le società appartenenti alla stessa catena di controllo;
b) obbligo per le holding quotande di presentare piani di investimento e diversificazione secondo criteri stabiliti dalla Consob;
c) obbligo per le società quotate di quantificare nello statuto un limite all’indebitamento;
d) un meccanismo di limitazione dei diritti di voto delle holding piramidali, con effetti proporzionali alla separazione tra proprietà e controllo.

Conseguenze sul sistema: alcuni esempi.

la G. Agnelli & C Sapa, che detiene tramite la catena Ifi–Ifil il 30,18 % dei voti nelle assemblee ordinarie di Fiat, vedrebbe sterilizzati i diritti di voto eccedenti il proprio possesso integrato, pari al 9,16 per cento! La Fiat diventerebbe contendibile: una casa automobilistica estera o un fondo di private equity potrebbero conquistarne il controllo a un costo limitato (a prezzi del 13 giugno, poco più di 2 miliardi di euro), e senza nemmeno obbligo di Opa. Chi, per tranquillità, volesse comprare il 14,99 % (appena sotto la teorica nuova soglia Opa), dovrebbe sborsare circa 2,6 miliardi. Non un cattivo affare per il raider; ma dubbia sarebbe l’utilità per il piccolo azionista Fiat e sicuro il danno per grandi e piccoli azionisti di Ifi e Ifil. A meno che la famiglia Agnelli non arrotondi la propria quota in Fiat fino al 14,99 %, con effetti analoghi per i risparmiatori.

Lo stesso ragionamento varrebbe per pezzi importanti del nostro sistema industriale, sia privato che pubblico: gran parte dei gruppi De Benedetti (Cir, Espresso, Sogefi), Pesenti (Italcementi), Pirelli, ex Orlando (Intek-Kme), Finmeccanica (Ansaldo) ed Eni (Saipem e Snam Rete Gas) verrebbero via a prezzi di saldo.

La limitazione dei diritti di voto varrebbe perfino se nel gruppo vi fosse una sola quotata a valle di una piramide di non quotate. Ad esempio in Unipol – controllata al 51 % delle azioni ordinarie da Finsoe, a sua volta controllata al 70 % da Holmo – le cooperative perderebbero la maggioranza assoluta e la società diventerebbe scalabile, forse anche senza Opa (a seconda del trattamento riservato alle azioni privilegiate).

Nell’elenco dei most wanted non potevano mancare i patti di sindacato, anch’essi sterilizzati: l’applicazione pratica del meccanismo è problematica (cosa sterilizzare? Le quote dell’intero patto? O solo eventuali pattisti "piramidali"?) ma, se si trovasse una soluzione, nei"saldi di stagione" si troverebbero società come Telecom "post riassetto", Mediobanca e Rcs.

Simili provvedimenti, probabilmente, possono danneggiare gli azionisti di minoranza come e più delle piramidi che, come riconosciuto dal gruppo Winter (di cui faceva parte anche Guido Rossi), i gruppi sono una forma fisiologica di organizzazione. E talvolta si formano strutture piramidali, anche nelle società non quotate: ad esempio, per via di acquisizioni; o per segregare un’attività, magari con soci che non intendono (o non si vuole far) partecipare all’intero business. Ciò è coerente con principi di economicità e diversificazione del rischio, e non implica l’intento di raggirare le minoranze.
Il discorso è in parte diverso per le piramidi di società quotate: qui l’asimmetria informativa con i risparmiatori può spingere a costruire strutture per mantenere il controllo nei livelli inferiori della piramide con un investimento personale limitato. In Italia il fenomeno, diffuso in anni passati, è ormai molto limitato. Anzitutto, è stato chiuso il rubinetto: le Ipo di società appartenenti a gruppi già quotati si sono assai ridotte, per lo scarso gradimento del mercato. Quanto alle scatole cinesi (che – è bene ricordarlo – non sono semplici holding di partecipazioni, ma società-marsupio quotate con attivo costituito dalla partecipazione in una sola altra società quotata), sono virtualmente sparite. Il regolamento di Borsa italiana impedisce la quotazione di nuove scatole. Il mercato prezza tali strutture: i principali investitori istituzionali, anche internazionali, ne posseggono quote significative. A fronte della severa disciplina introdotta dalla Consob nel 2002 sulle operazioni con parti correlate, non risultano sanzioni. Accorpamenti, cessioni e delisting hanno molto ridotto la complessità dei gruppi quotati; tali fenomeni, unitamente alla frequente conversione delle azioni di risparmio in ordinarie, hanno ridotto la separazione tra proprietà e controllo. Le società quotate stand-alone (che non controllano, né sono controllate, da altre quotate) sono raddoppiate tra il 1978 e il 2003, salendo da 97 - pari al 48 % del totale - a 188, pari al 72 % del totale. I gruppi piramidali (contenenti due o più società quotate controllate a cascata) erano e restano una trentina.

Insomma, le piramidi sono state costruite nell’antichità. Ma sono strutture che durano a lungo. Si può impedire (ed è già stato fatto) la costruzione di nuove piramidi; e il mercato crea forti incentivi ad abbassarle. Lo stesso governatore della Banca d’Italia, dopo aver riconosciuto che è la pressione del mercato ad aver ridotto la complessità dei gruppi - e non le nuove regole fiscali e di trasparenza - ha affermato che è "soprattutto la concreta applicazione delle norme sulle operazioni infragruppo e sulla tutela degli azionisti di minoranza che va ancora rafforzata": non certo la definizione di nuove regole. Smantellare le piramidi per legge richiede invece un’atomica giuridica – che produrrebbe solo un bel mucchio di macerie (con i risparmiatori sotto!).