mercoledì 27 giugno 2012

Cosa succede in Italia se torna la lira?




Difficile in realtà avere idee precise su ciò che potrebbe succedere in Italia se si tornasse alla lira.

Secondo uno studio di Ubs il costo della fine dell’Euro per un contribuente tedesco o olandese sarebbe otto o dieci volte più alto del più caro dei salvataggi, quanto meno nei dodici mesi successivi alla rottura.
Ad Atene ogni greco pagherebbe tra i 9.500 e 11.500 degli attuali euro il primo anno e 4.000 negli anni successivi, costi notevolmente superiori ai sacrifici dell’austerità.

E l'Italia?
Non esistono nella letteratura economica esempi di tale portata.

Il caso più simile e vicino nel tempo è quello dell’Argentina. La moneta dei Paesi periferici euro si svaluterebbe tra il 30 e il 50 per cento. Al contrario, quella dei Paesi del Nord si rivaluterebbe almeno del 40%, mettendo fuori mercato interi settori industriali. La disoccupazione crescerebbe e con essa l’instabilità sociale.

Ipotizzando di prendere a esempio le vicende del peso argentino subito dopo il disallineamento dalla parità virtuale imposta rispetto al dollaro (più o meno quello che succederebbe tra Italia e Germania), la lira cercherebbe immediatamente il proprio reale punto di equilibrio. La prime conseguenze sarebbero, nello scenario peggiore tra i peggiori, il raddoppio del prezzo di tutti i beni importati. Il carburante in ventiquattro ore passerebbe a quasi tre euro. Telefonini, automobili straniere, elettricità, gas dalla Libia, computer dalla Corea e Ipad raddoppierebbero il costo. Ci troveremmo a pagare il doppio i pezzi di ricambio delle auto straniere in garage. Su anche i prezzi degli alimentari. Dall’oggi al domani gli stipendi perderebbero potere di acquisto di un 30% almeno.

Il lato positivo è che il debito pubblico italiano si svaluterebbe all’improvviso e ci troveremmo in una situazione già conosciuta in passato: avendo, a parità di livello tecnologico, un costo del lavoro più basso di quello dei concorrenti, l’Italia sarebbe un temibile avversario economico.  Nessuno più acquisterebbe Bmw o altre auto tedesche. Mentre a Berlino si farebbe la fila per le Fiat e le Alfa.

Infine, se la svalutazione interna viaggiasse sulle stesse percentuali, sarebbe una benedizione per lo Stato spendaccione ma una vera e sonora  fregatura per tutti quegli italiani che hanno accumulato risparmi nel corso degli anni. Chi oggi ha 100 mila euro è come se si ritrovasse improvvisamente con 30, 40 mila euro in meno.

C’è poi un altro scenario possibile, più fantasioso: il default pilotato. Ovvero lo Stato taglia i debiti e non  rimborsa più una percentuale o taluni creditori. Quasi il 40% del nostro debito è in mano agli stranieri. Se l’Italia dichiarasse default, rimborsando solo gli italiani possessori di titoli non gli stranieri (francesi, tedeschi, ecc) risolverebbe in un colpo gran parte dei problemi. Si troverebbe con il 40% di debito in meno, una moneta svalutata e la possibilità di tagliare drasticamente le tasse (s’intende riformando la spesa). L’Italia volerebbe, insomma, se solo prima non venisse letteralmente invasa  dai carri armati degli ex alleati...!

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Fonte: Ansa.it

domenica 24 giugno 2012

Accordo sulla crescita


 
L'accordo per la crescita c'é: un pacchetto da 130 miliardi, pari all'1% del Pil europeo, per far ripartire l'Europa. E preparare il terreno per dare, al prossimo consiglio europeo, quei segnali "concreti" in grado di far capire ai mercati che "l'Euro c'é e intende continuare ad esserci" perché quello della moneta unica europea è un progetto "irreversibile". Dalla quadrilaterale di Roma tra Monti, Merkel, Hollande e Rajoy, un segnale dunque è arrivato, se non altro un segnale di unità, insieme alla volontà dei quattro leader di Italia, Germania, Francia e Spagna di andare avanti sulla Tobin Tax, chiedendo che al prossimo summit a Bruxelles venga approvata "attraverso la cooperazione rafforzata", dunque, anche senza la recalcitrante Gran Bretagna. 

Questo non significa certo che siano stati superati tutti gli scogli. Tutt'altro. Certamente più conciliante e sorridente del solito, la Merkel - pur dando il suo via libera al pacchetto per la crescita - ha comunque ribadito tutti i suoi paletti, ribattendo prontamente ad ogni riferimento alla linea del rigore scelta da Berlino. "Si possono cedere porzioni di sovranità nazionale solo se ci sarà più solidarietà in Europa", ha rintuzzato Hollande rispondendo all'appello ad una più forte unione politica lanciato dalla Cancelliera. "Dove c'é solidarietà servono anche controlli", perché in passato "le regole non sono state rispettate", è stata la pronta replica della Merkel, che è tornata a ribadire come "crescita e finanze solide sono i due lati della stessa medaglia". E ancora, Frau Merkel non ha nascosto la sua contrarietà all'uso dei fondi salva Stati per ricapitalizzare le banche. "Secondo i trattati non è possibile - ha detto - e i trattati vanno rispettati". Frase quest'ultima indubbiamente rivolta anche alla proposta di Monti sull'uso di Efsf-Esm per creare uno scudo anti-spread. Proposta che ha ottenuto il pieno appoggio della Francia, mentre la cancelliera ha glissato in pubblico, tornando a ribadire che i meccanismi per garantire la stabilità esistono già.

L'importanza delle regole è stata sottolineata dallo stesso Monti, che però ha tenuto a ricordare che nel 2003 furono Francia e Germania, con la "complicità " dell'Italia, ad essere autorizzati a deragliare dalle regole europee. "Ci abbiamo messo dieci anni per ricostruire una credibilità europea. Ecco l'importanza delle regole". 

Insomma le distanze rimangono, ma anche la paura dei mercati. Per questo un messaggio è stato unanime: l'euro non si tocca. "E' un progetto irreversibile", ha detto Monti. "Intendiamo lottare per mantenere la nostra moneta", gli ha fatto eco la Merkel. Per questo Italia, Germania, Francia e Spagna si presenteranno al consiglio europeo del 28-29 giugno con l'accordo sul pacchetto per la crescita. Un pacchetto da 130 miliardi che ricalca quello proposto nella lettera che Hollande ha recapitato nei giorni scorsi alle cancellerie europee, e che puntava a reperire una cifra pari all'1% del pil europeo in parte dai fondi strutturali inutilizzati (55mld), in parte attraverso la Bei, che potrebbe raccogliere sui mercati fino a 60 miliardi grazie al suo potenziamento, e in parte dai famosi project bond (4,5-5 miliardi). Quel che è certo è che di obbligazioni europee, di qualunque genere, oggi non si è parlato, fatta eccezione per un accenno di Hollande ("gli eurobond devono rimanere una prospettiva, e non a 10 anni"). 

L'accordo di Roma al momento ha raccolto una reazione tiepida dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy - "ogni incontro che possa dare una spinta verso il consenso nel vertice della prossima settimana è utile" - mentre per il premier belga Elio di Rupo "é un inizio", ma non basta

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Fonte: Ansa.it

venerdì 8 giugno 2012

...Fuga da Wall Street?



L’Ipo più attesa del decennio doveva riaccendere l’amore degli investitori per Wall Street, invece le ha dato un altro colpo. Il debutto in Borsa di Facebook con una valutazione superiore ai 100 miliardi di dollari ha bruciato quel po’ di fiducia rimasta nel mercato azionario americano, soprattutto dopo la rivelazione che alcune banche d’affari curatrici dell’offerta pubblica davano in privato, solo ai clienti privilegiati, un parere meno entusiasta sulle sue prospettive.

La delusione per il flop di Facebook - le cui quotazioni sono crollate di quasi un quarto nei primi cinque giorni di scambi - ha spinto ancora più risparmiatori ad abbandonare la Borsa: i riscatti dai fondi azionari Usa hanno raggiunto i 3 miliardi di dollari nella settimana dell’Ipo di Facebook, il dato peggiore degli ultimi mesi. E la perdita del 6,2% dell’indice Dow Jones in maggio non migliora l’umore del mercato.
«Le azioni sono morte?», si è chiesto il Financial Times in prima pagina. E la domanda è rimbalzata sulle piazze finanziarie di qua e di là dell’Atlantico. La risposta unanime è che a morire è stato il culto delle azioni, perché nessuno sembra più credere alle statistiche per cui la Borsa nel lungo termine rende più delle obbligazioni. Non importa se dal 1900 al 2010 le azioni americane hanno battuto l’inflazione di 6,3 punti percentuali l’anno contro l’1,8 offerto dai bond, come mostra uno studio della London business school citato dal FT. Così oggi i risparmiatori corrono a comprare i titoli di Stato Usa decennali che rendono l’1,5%, cioè meno del tasso d’inflazione (2,3%) e meno del 2% di rendimento medio delle azioni (il rapporto fra dividendo e prezzo).

Non c’è accordo invece su che cosa può succedere d’ora in poi: secondo alcuni questo disamoramento di massa per Wall Street sarebbe un segnale contrarian, l’indicazione dell’imminente partenza di un nuovo grande rally azionario; secondo altri l’attuale clima andrà avanti a lungo a causa di fattori indipendenti dalla Borsa, in particolare per la repressione finanziaria esercitata dai governi e per le dinamiche demografiche.

La fuga da Wall Street è in atto già da tempo: dal 2006 a oggi i fondi azionari americani hanno perso 473 miliardi di dollari (saldo netto fra sottoscrizioni e riscatti), mentre quelli obbligazionari hanno incassato 1.042 miliardi netti. La fiducia nella correttezza ed efficienza del mercato è stata scossa nell’ultimo decennio dallo scoppio di due grandi Bolle, quella delle dot.com nel 2000 e quella immobiliare nel 2007-2008; due crolli di Borsa superiori al 50% e da una serie di scandali e bancarotte aziendali impressionanti, dalla Enron nell’ottobre 2001 alla Lehman Brother nel 2008, per citarne solo due. Non stupisce allora sapere che la quota delle famiglie americane con investimenti in azioni diretti o indiretti (attraverso fondi o altri prodotti) è scesa dal 53% nel 2001 al 46,4% nel 2011 secondo l’ultimo sondaggio dell’Investment company institute, l’associazione dei gestori di fondi Usa; e oggi solo il 15% degli americani si fida di Wall Street, secondo l’Indice della fiducia finanziaria elaborato dalle scuole di business Chicago Booth/Kellog.
E non è una tendenza in atto solo fra i risparmiatori. Anche gli investitori istituzionali hanno ridimensionato drasticamente il loro portafoglio azionario: era fino al 70% del patrimonio dei fondi pensione americani e britannici dieci anni fa, ora è attorno al 40% in Gran Bretagna e poco sopra il 50% negli Usa. Su di loro pesa non solo la paura di non raggiungere gli obbiettivi di rendimento prefissati, ma anche la pressione delle autorità politiche e monetarie a investire in titoli emessi dai governi, che hanno disperato bisogno di finanziare i loro crescenti debiti.

Gli ottimisti fanno notare che «La morte delle azioni» era stata annunciata già 33 anni fa, sulla copertina di BusinessWeek del 13 agosto ’79: poco dopo sarebbe partito un formidabile rialzo durato 20 anni, con rendimenti annui composti del 17,5% negli Anni ’80 e del 18,2% nei ’90.
Auspicano quindi che il fenomeno si ripeta…
 
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Fonte: CorriereEconomia

giovedì 7 giugno 2012

Europe's crisis can't be solved by austerity



Fiscal profligacy did not cause the sovereign debt crisis engulfing Europe, and fiscal austerity will not solve it. On the contrary, such austerity has aggravated the crisis and now threatens to bring down the euro and throw the global economy into another tailspin.

In 2007, Spain and Ireland were models of fiscal rectitude, with far lower debt-to-GDP ratios than Germany had. Investors were not worried about default risk on Spanish or Irish sovereign debt, or about Italy's chronically large sovereign debt. Indeed, Italy boasted the lowest deficit-to-GDP ratio in the eurozone, and the Italian government had no problem refinancing at attractive interest rates. Even Greece, despite its rapidly eroding competitiveness and increasingly unsustainable fiscal path, could attract the capital that it needed.

Deluded by the convergence of bond yields that followed the euro's launch, investors fed a decade-long private-sector credit boom in Europe's less developed periphery countries, and failed to recognize real-estate bubbles in Spain and Ireland, and Greece's slide into insolvency. When growth slowed sharply and credit flows collapsed in the wake of the Great Recession, budget revenues plummeted, governments were forced to socialise private-sector liabilities, and fiscal deficits and debt soared.

With the exception of Greece, the deterioration in public finances was a symptom of the crisis, not its cause. Moreover, the deterioration was predictable: history shows that the real stock of government debt explodes in the wake of recessions caused by financial crises.

But austerity is not working; indeed, it is counterproductive. In the short to medium term, fiscal consolidation – whether in the form of cutting government spending or increasing revenues – results in lower output and employment, which means lower tax collection, higher deficits, and escalating debt relative to GDP. Savvy investors, like frustrated voters, recognize that low growth and high unemployment actually enlarge deficits and add to debt in the short run. That is why, after more than two years, interest rates are rising, not falling, in countries crushed by onerous austerity measures.

Greece is caught in a classic debt trap, as the interest rate on its public debt has soared beyond its growth rate by a considerable margin; Spain is teetering on the brink. Austerity in Europe has confirmed the International Monetary Fund's warning that overdoing fiscal consolidation weakens economic activity, undermines market confidence, and diminishes popular support for adjustment.

In the long run, many eurozone countries, including Germany, require fiscal consolidation in order to stabilise and reduce their debt-to-GDP ratios. But the process should be gradual and backloaded – with much of the consolidation coming after Europe's economies have returned to a sustainable growth path.

Italian prime minister Mario Monti and French president François Hollande are right: Europe needs bold, co-ordinated policies to promote growth, along with market-based structural reforms to foster competition and an easing of fiscal targets until output and employment recover.

But how can significant new growth initiatives be financed? The reality is that the rest of Europe cannot succeed in restoring growth without Germany, and Germany remains wedded to the austerity cure.

With a modest fiscal deficit, record-low borrowing costs, and a huge current-account surplus, Germany has the financial firepower to unleash a significant stimulus.

Despite pleas from the IMF and the OECD, Germany also remains implacably opposed to eurobonds, which could ease the funding constraints of other eurozone members and bolster the resources of the European Stability Mechanism, which currently does not provide a credible firewall against a run on Spanish or Italian sovereign debt – or on the European banks that hold it. Indeed, the worsening banking crisis, with deposits fleeing from the eurozone periphery, is further strangling Europe's growth prospects.

It is probably too late to save Greece. But a shift toward policies to promote growth, supported by the easing of deficit targets and the issuance of eurobonds, is essential to bring Europe back from the brink of sustained recession, to stabilise Europe's financial markets, and to prevent another significant disruption to global capital markets.


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Fonte: Theguardian

mercoledì 6 giugno 2012

Bankitalia, le tre parole chiave sulla crisi




Questo lo scenario a tinte cupe delineato dal Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, che in occasione delle sue prime considerazioni finali si è concentrato sullo stato di salute delle banche e dello Stato italiano.

Ecco le sue tre principali proposte.

Diminuire la pressione fiscale.
Sul fronte del risanamento dei conti, pur tessendo le lodi all’azione finora svolta dall’attuale esecutivo, Visco ha ricordato che "si è pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli oramai non compatibili con una crescita sostenuta". E che tale l'inasprimento "non può che essere temporaneo". La sfida ora si sposta su un altro piano: "Occorre trovare oltre a più ampi recuperi di evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale". Se accuratamente identificati e ispirati a criteri di equità, ha aggiunto il numero uno di Palazzo Koch, "i tagli non comprometteranno la crescita" e "potranno concorrere a stimolarla se saranno volti a rimuovere inefficienze dell'azione pubblica, semplificare i processi decisionali, contenere gli oneri amministrativi". Del resto, ha sottolineato, i margini disponibili per ridurre il debito "anche con la dismissione di attività in mano pubblica", vanno utilizzati pienamente.

Banche: più controlli dei rischi.
Gli istituti di credito italiani devono cambiare l’attuale modello di crescita della redditività e devono intervenire "sul costo del lavoro", le "remunerazioni" dei vertici, la rete delle filiali e il numero dei componenti dei cda che nei primi 10 gruppi vede ben 1.136 cariche. Inoltre, il Governatore ha chiesto un "un più attento controllo dei rischi" da parte delle banche, che impone anche "profitti più bassi ma più stabili di quelli del decennio precedente alla crisi", ricordando però il forte sostegno dato dagli istituti al debito sovrano italiano: gli acquisti netti dei titoli di Stato nei primi 3 mesi 2012, infatti, sono stati pari a 70 miliardi di euro.

Riforme.
Il paese, ha detto Visco, non può chiedere uno sforzo finanziario aggiuntivo ai suoi imprenditori, senza che venga a loro assicurata "una semplificazione dell'ambiente normativo in cui operano". Su questo fronte il Governatore di Bankitalia ha rilanciato il tema delle riforme strutturali, necessarie per rimettere in moto il Paese e il cui percorso va proseguito "con energia accresciuta e visione ampia", soprattutto nei settori dell'istruzione, della giustizia e della sanità.

Dunque... Inutile farsi troppe illusioni: per l'Italia il 2012 non potrà che concludersi sotto il segno della recessione, con una caduta del Pil contenuta intorno all'1,5%, mentre l’Eurozona, per salvarsi, dovrà mostrare la volonta "irremovibile" di preservare la moneta unica. 

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Fonte: Panorama.it