venerdì 24 ottobre 2008

La crisi Islandese...



Il collasso islandese degli ultimi giorni non ha precedenti nella storia, almeno in tempo di pace, in quanto a rapidità e profondità.

Le quote delle ipoteche e di altri prestiti sono raddoppiate, i prezzi sono cresciuti più del 30%, quasi tutti i risparmi sono andati in fumo, gli stipendi sono congelati e si prevedono licenziamenti di massa. L’Islanda è la prima vittima del credit crunch, e il suo catastrofico collasso dimostra l’importanza delle misure atte a contenere la crisi per evitare che quel che è successo nell’isola artica possa trovare spazio anche in altri paesi.

Gli economisti sostengono che un ruolo fondamentale nel tracollo islandese sia stato giocato dalla sua banca centrale. Il paese ha perseguito una politica monetaria basata sulla fissazione di un’inflation target, simile a quella posta in essere dalla Banca Centrale Europea. Questa strategia implica un aumento dei tassi di interesse quando l’inflazione si spinge al di sopra del target, e un taglio del costo del denaro in caso contrario. Una politica di questo tipo può risultare appropriata per le aree monetarie grandi, come l’eurozona, ma nel caso della minuscola Islanda ha prodotto risultati disastrosi perché ha alimentato enormi flussi speculativi di divise e forti incentivi all’indebitamento in divisa estera per i nuclei familiari locali.

In virtù di tale processo, la divisa locale ha subito un rapido apprezzamento, dando agli islandesi una falsa illusione di ricchezza. Il risultato finale si è concretizzato in una bolla speculativa, con un tasso di cambio sempre più lontano da quello che sarebbe stato dettato dai fondamentali economici del paese, fino al momento in cui è arrivata l’inevitabile esplosione della bolla e la drammatica svalutazione della divisa.

Un ulteriore elemento negativo è stata la dimensione del settore finanziario.

Le banche islandesi possedevano attività e passività denominate in valute estere per un ammontare dieci volte superiore al Pil del paese. In circostanze normali questo non dovrebbe costituire un problema, anche perché le banche locali presentavano ratio migliori rispetto ai diretti competitors europei ed una minore esposizione al rischio. Tuttavia, nell’ambito della crisi attuale, la solidità dei bilanci non è l’aspetto più importante.

Quel che realmente importa è la garanzia implicita o esplicita che un governo può offrire alle banche per far fronte ai propri debiti e soddisfare il bisogno di liquidità. Pertanto, la dimensione dello Stato rispetto a quella del settore bancario costituisce un elemento fondamentale.

La causa del collasso della corona islandese va ricercata nell’intento disperato degli speculatori di porsi in salvo in un momento di incertezza.

Ma decisamente penalizzante è stata l’inadeguata risposta britannica alla crisi del sistema bancario dell’isola. Il governo di Londra ha utilizzato la legislazione antiterrorista per rifarsi sugli assets delle banche islandese che godono di buona salute. Gordon Brown ha minacciato ripetutamente di confiscare tutte le attività islandesi in Gran Bretagna, senza fare distinzione tra assets statali, bancari e personali (appartenenti a persone che nulla hanno a che fare con la crisi). L’autentica tragedia è l’impatto sulle famiglie islandesi.

Tuttavia... la presenza di risorse naturali e di una popolazione molto ben istruita sono fattori che dovrebbero consentire all’Islanda di guardare al lungo termine con una certa dose di ottimismo.