lunedì 23 luglio 2012

Sfide a distanza sul mercato secondario


I falchi tedeschi cercano di creare una profonda ferita nell'euro affermando che il Fondo monetario non intende continuare nei suoi aiuti alla Grecia. La notizia è stata parzialmente smentita. Ma lo «scetticismo» del ministro dell'Economia tedesco Roesler nei confronti di Atene è la dimostrazione che la guerra contro l'euro non si svolge solo sul fronte esterno, ma anche sul fronte dell'ipernazionalismo della Germania.

 La battaglia dell'euro si deciderà, per l'Italia, entro agosto.

O almeno così pare, leggendo fra le righe ciò che ha detto Mario Draghi. Non è chiaro se egli sia come il generale Cadorna nella Prima guerra mondiale, che continuando a ritenere decisiva ogni conquista, passo passo ha perso a Caporetto. O come Diaz che ha rovesciato il fronte. Propendiamo per la seconda ipotesi...La principale dichiarazione di Draghi è che l'euro è irreversibile. Non si tratta della frase di uno che ha nel revolver solo l'ultimo colpo, dà la sensazione di uno che ha ancora altre munizioni. In luglio noi dobbiamo emettere 2 miliardi di euro di Ctz biennali il 26 e 8 di Bot semestrali il 27, la vera battaglia avverrà il 30 luglio per 4-6 miliardi di Btp a 5 e 10 anni. I Bot semestrali sono quasi moneta, il loro tasso non è soggetto al famoso spread di 500 punti che riguarda i Btp.... Sarà dunque il 30 luglio che si vedrà quanti Btp comprano gli operatori esteri che sono in gran parte investitori istituzionali tedeschi e di altri stati dell'eurozona i cui titoli a lungo termine hanno rendimenti inferiori al tasso di inflazione e, quindi, hanno bisogno di mettere nel portafoglio titoli a rendimento elevato. In agosto, ci sono il 13 una asta di Bot, il 28 una asta di Ctz e il 29 un'asta Bot. Dunque non ci saranno sfide sul campo di battaglia del mercato primario, ma solo sfide a distanza su quello secondario, mediante le vendite, soprattutto allo scoperto, di chi scommette contro l'euro. Nei portafogli dell'area del dollaro non ci sono molti Btp e quindi ha ragione chi sostiene che se in agosto il tentativo dei venditori short non avrà successo, essi rimarranno senza molte munizioni per i mesi seguenti. Certo se noi italiani ci fossimo fatti un fondo di 100 miliardi cash, con l'aiuto di banche internazionali, garantito su nostri patrimoni pubblici, con il supporto di banche internazionali, per contrastare la speculazione, la situazione sarebbe migliore. Ma bisogna tenere presente che Draghi ha risorse per intervenire nel caso di tensioni eccessive. Il presidente della Bce è condizionato dal principio che gli Stati indebitati debbono essere tenuti sotto pressione, in quanto non disposti a effettuare le necessarie riforme se non costretti. E ciò vale anche per il governo Monti, condizionato da un Pd a parole pro euro, nei fatti riottoso a riforme efficaci. Anche la minaccia di elezioni anticipate a settembre da parte di un Pd che teme di perdere, fa parte delle ragioni per cui la Bce non ci aiuta.

Certo, la affermazione di Draghi per cui l'euro è irreversibile è ambigua, ma non abbastanza per la distinzione fondamentale che fa fra la possibilità che per ragioni politico-finanziarie le autorità di fatto fiscali e monetarie dell'eurozona decidano di fare a meno della Grecia (poco probabile per ragioni politiche e perché la spesa è limitata rispetto a quella già fatta) e la possibilità che decidano di far andare fuori la Spagna e l'Italia. La prima, dopo che il Bundestag tedesco ha approvato 100 miliardi di aiuti alle banche spagnole sembra da escludere. Si tratta di una cifra troppo importante per pensare che non ci sia, alla base, una scelta di principio. Ora il debito si è "incollato"al creditore (la Germania ha una quota del 27% e l'Italia del 18%) e il creditore cercherà di non perdere il suo credito. 

E qui entra in gioco la questione dell'Italia.

Se esce dall'euro, la quota degli oneri della Germania aumenta automaticamente del 18% del 27% ossia 4,9% e passa al 32% . Se Spagna e Italia escono dall'euro, essa si riduce del 29%. E poiché uscirebbero anche Portogallo e Grecia, che contano per un altro 5 % abbondante, si ridurrebbe di un terzo e perderebbe attrazione per i nuovi candidati e l'euro diventerebbe una moneta internazionale secondaria, mentre l'eurozona non sarebbe più la parte dominante dell'Ue. E l'Italia fuori dall'euro, ma agganciata ad esso con una banda di oscillazione sarebbe un competitore pericoloso. Ecco che la battaglia di luglio e agosto per noi è quasi decisiva.

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Fonte: IlGiornale.it

mercoledì 11 luglio 2012

Accordo Eurogruppo, rotto il circolo vizioso tra debito sovrano e debito bancario




Se i 17 di Eurolandia avessero deciso un anno fa l'aiuto diretto alle banche con il Fondo salva stati senza pesare sul debito pubblico ora saremmo in ripresa economica. L'austerity (aumento delle tasse o riduzione delle spese) provoca un rallentamento dell'attività economica che oggi si trasmette direttamente nel peggioramento degli attivi delle banche stesse (esempio spagnolo dove i prestiti dubbi o bad loans aumentano se non schizzano, il credito alle imprese diminuisce, gli utili bancari vanno in rosso, il Pil va in recessione e aumenta il deficit).
L'aiuto diretto alle banche invece permetterà, quando sarà deciso formalmente il 20 luglio al prossimo Eurogruppo e solo dopo che la vigilanza bancaria europea sarà stata approntata (fra un anno), all'austerity di avere un esempio vituoso di rimettere a posto i conti pubblici senza provocare il collasso delle banche. Cioè interrompendo il circolo vizioso del debito sovrano con le banche. In questo ottica va segnalato che l'ESM (Meccanismo Europeo di Stabilità) non avrà il titolo di creditore privilegiato come era previsto in un primo tempo, una mossa che aveva allarmato gli investitori. Un errore prontamente e saggiamente emendato in "seconda" lettura.

SPAGNA. I soldi andranno così al FROB (il fondo statale spagnolo per la ristrutturazione bancaria) che riceverà entro la fine del mese una prima tranche di 30 miliardi di euro dall'EFSF (Fondo europeo di stabilità finanziaria meglio conosciuto come Fondo salva-stati), come «riserva in caso di necessità urgenti». Una mossa utile a calmare i mercati. La Spagna dovrà attuare una «revisione dei segmenti deboli del settore finanziario spagnolo», inclusa la vigilanza che è apparsa in qualche occasione un po' troppo rilassata, e le banche destinatarie del sostegno saranno soggette a specifici obblighi di ristrutturazione. La Spagna metterà a punto una bad bank per gestire gli asset delle banche in difficoltà come nelle migliori tradizioni di queste vicende. Un punto va chiarito: solo in futuro, però, quando ci sarà la vigilanza bancaria europea, l'ESM potrà fornire soldi direttamente alle banche senza pesare sul debito pubblico che aumentando fa salire gli interessi dei bond sovrani e anche attraverso questi titoli in pancia alle banche provoca, dopo l'infausta decisione dell'EBA (European Banking Authority, organismo della Ue, che ha il compito di sorvegliare il mercato bancario europeo) di contabilizzare al "mark to market" cioè al valore di mercato le obbligazioni sovrane, una seconda perdita alle banche che si aggiunge al rallemento economico.
 
SPAGNA CONTI. Inoltre, la Spagna dovrà anche adottare nuove misure correttive di auterità supplementare per riportare il disavanzo più vicino agli obiettivi concordati con la commissione, che però saranno alzati al 6,3% nel 2012 e al 4,5% nel 2013. A Madrid però è stata concessa una dilazione di un anno (dal 2013 al 2014) per portare il deficit/pil al di sotto del 3%. Una boccata di ossigeno per il governo Rajoy.
 
VIGILANZA BANCARIA EUROPEA. È stato fissato indicativamente per la prima settimana di settembre un Eurogruppo nell'ambito del quale è attesa la presentazione di proposte della Commissione europea guidata da Manuel Barroso in merito all'organismo unico di vigilanza bancaria, che il consiglio europeo è atteso valutare entro fine anno. Non si parla ancora di garanzie bancarie comuni dei depositi bancari per evitare le corse agli sportelli (come avvenuto in Grecia prima del voto del 17 giugno o in Spagna per la Bankia) ma è evidente che la nuova autorità sotto il controllo della Bce avrà compiti e poteri di regìa in coordinamento con le varie istitutizoni europee sulle banche fino alla chiusura coatta in caso di situazioni di grave indebitamento.

FONDO ANTI-SPREAD. Infine i 17 ministri delle Finanze dell'Eurozona hanno reso operativa l'intesa raggiunta dai Capi di governo nel summit dell'Eurogruppo del 28-29 giugno sull'utilizzo del fondo salva Stati (interventi per calmierare gli spread tra i diversi titoli sovrani), la decisione fortemente voluta dal premier Mario Monti. La Bce di Mario Draghi sarà chiamata a operare per gli acquisti dei bond interessati ma solo usando soldi del Fondo salva-stati per evitare di infrangere i trattati che proibiscono di finanziare i debiti dei paesi membri.

Bye!


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Fonte: Sole24Ore

lunedì 9 luglio 2012

La Bce taglia i tassi, ma il mercato rimane deluso. Oggi tocca all'Eurogruppo...


La scorsa settimana è stata dominata dall´attesa per la Banca centrale europea. L´Eurotower ha ridotto il tasso di riferimento di 25 punti base portandolo al minimo storico dello 0,75%. In calo anche il tasso sui depositi e quello sui prestiti overnight che passano a zero ed all'1,50%. La reazione del mercato non è stata però positiva. Gli operatori si attendevano verosimilmente di più dal governatore Mario Draghi, che ha lasciato capire come la prospettiva di un nuovo piano di finanziamenti alle banche (LTRO 3) non sia imminente. Si è così assistito a una correzione delle Borse e a una concomitante risalita dei rendimenti per i titoli dell´Europa periferica, con lo spread Btp/Bund tornato in area 470 punti base.

Gli appuntamenti di maggior interesse di questa settimana: nella giornata odierna il governatore della Bce ha tenuto un discorso al Parlamento europeo mentre i ministri finanziari dell´Eurogruppo (per l´Italia presente Mario Monti) stanno ancora definendo gli accordi raggiunti nel summit europeo del 28 e 29 giugno scorsi.
Si guarderà tuttavia con attenzione anche alla riunione di domani della Corte Costituzionale tedesca, che discuterà le mozioni contro l´Esm. Da ricordare nella giornata di giovedì la pubblicazione del report mensile di luglio da parte della Bce.

L´intonazione di breve termine dei mercati finanziari sarà con buona probabilità decisa dall´orientamento che prenderà l´Eurogruppo oggi. L´agenda dell´evento racchiude infatti numerosi dei punti anti-crisi discussi nelle ultime settimane: lo scudo anti-spread e le banche, la ricapitalizzazione delle banche spagnole (lunedì verrà perfezionato il memorandum d´intesa), i nuovi aiuti alla Grecia e a Cipro (si deciderà sulla possibilità di concedere ad Atene due anni in più per l´applicazione del programma di austerità). Sarà inoltre da decidere la nomina di un nuovo membro nel board della Bce al posto di Josè Manuel Gonzales-Paramo. Per assistere a un aumento della propensione al rischio da parte degli investitori sarà necessario che gli accordi presi tra i leader europei vengano ratificati. Saranno in particolare necessari passi in avanti nella creazione di un´autorità unica per la supervisione degli istituti di credito e in merito ai tempi e alle modalità di applicazione dell´accordo per l´acquisto di bond dei Paesi sotto attacco speculativo da parte dei fondi Esm-Efsf.

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Fonte: Barclays Capital 

martedì 3 luglio 2012

L'Euro di tutti




Chi ha più fame vince e, questa volta, Mario Monti ha dimostrato di avere ancora più fame di Mario Balotelli. Sul campo da gioco di Bruxelles il "commissario tecnico" dell'Italia è stato così testardo da tenere sul tavolo il problema della costruzione (incompiuta) europea e del rischio euro nonostante le forti pressioni che lo spingevano a desistere. Con il peso della sua credibilità e la forza di un'azione di governo che ha fatto i compiti in casa, il premier italiano ha costretto la cancelliera Merkel a prendere atto e ad affrontare il problema vero del momento.

Quale?

Che i tassi di interesse dei titoli sovrani dei diversi Paesi riflettono il giudizio dei mercati sui loro fondamentali (finanza pubblica, salute dell'economia, dinamismo nelle esportazioni, solidità del sistema bancario) ma dipendono, per una componente non piccola, dalla percezione che i mercati hanno proprio del rischio euro, del tasso di fiducia che riscuote la costruzione europea, del fatto che siano ancora tanti, troppi, a scommettere sulla fine della moneta unica.
Mario Monti ha chiamato tutti ad assumersi le proprie responsabilità, ha chiesto e ottenuto un impegno solenne a portare a zero questa percezione dei mercati perché Paesi come l'Italia che hanno imposto ai loro cittadini la medicina necessaria ma amara dei sacrifici non debbano anche pagare un surplus di costi per finanziare la raccolta dello Stato e, di conseguenza, di banche, imprese e famiglie sull'altare di una colpevole fragilità politica europea.

La soluzione effettiva del problema non c'è, ma c'è la consapevolezza e l'impegno che occorre trovarla all'interno di un programma condiviso di Unione rafforzata, coautore Mario Draghi, che incide sul piano fiscale, finanziario (in primis vigilanza bancaria comune), economico e politico. C'è un risultato rilevante perché stabilisce, per la prima volta, il principio che il rischio euro non è un problema di questo o quel Paese ma è un problema europeo e, cioè, di tutti. Non si tratta di chiedere salvataggi ma di dire le cose come stanno e di dare un segnale preciso ai mercati. Si è deciso che bisogna mettere in moto adeguati meccanismi di intervento perché il problema c'è. Prima si negava, a volte con protervia, che il problema esistesse.

Ora, però, bisogna passare dalle parole ai fatti.
Con quali soldi si interverrà sul mercato primario e secondario dei titoli di Stato?
Si darà o meno la licenza bancaria al fondo Efsf/Esm?
Chi e come potrà ricapitalizzare direttamente le banche?

Sono dettagli importanti, da curare con attenzione e sui quali non cessare mai di vigilare perché l'applicazione tecnica può esprimere, al massimo o al minimo, la scelta di dotarsi di uno scudo anti-spread e ciò determina effetti non trascurabili sulle singole economie europee.
Il cammino dell'Italia resta difficile, si vince o si perde in casa, ma il disegno politico europeista esce rafforzato proprio grazie all'azione determinata del nostro governo. Non è poco. Dopo tante fumate nere, il vertice appena concluso segna un passo deciso nella direzione auspicata degli Stati Uniti d'Europa.

La Merkel continua a negare gli eurobond, ne fa un punto d'onore, ma il piano per la crescita mobilita risorse reali e sarà un test per constatare se si è deciso di sanare finalmente la zoppìa europea originaria che non ha mai consentito di affiancare alla gamba del rigore quella della crescita. Per noi, sarà decisivo conservare la fame di questi giorni. La stessa che mostrammo di avere negli anni del dopoguerra. Come allora anche oggi, non dobbiamo nascondere le nostre debolezze se vogliamo vincerle. La vera sfida è convincere gli altri che non abbiamo solo il desiderio, ma anche le capacità e la forza per farlo.

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Fonte: Sole24Ore

mercoledì 27 giugno 2012

Cosa succede in Italia se torna la lira?




Difficile in realtà avere idee precise su ciò che potrebbe succedere in Italia se si tornasse alla lira.

Secondo uno studio di Ubs il costo della fine dell’Euro per un contribuente tedesco o olandese sarebbe otto o dieci volte più alto del più caro dei salvataggi, quanto meno nei dodici mesi successivi alla rottura.
Ad Atene ogni greco pagherebbe tra i 9.500 e 11.500 degli attuali euro il primo anno e 4.000 negli anni successivi, costi notevolmente superiori ai sacrifici dell’austerità.

E l'Italia?
Non esistono nella letteratura economica esempi di tale portata.

Il caso più simile e vicino nel tempo è quello dell’Argentina. La moneta dei Paesi periferici euro si svaluterebbe tra il 30 e il 50 per cento. Al contrario, quella dei Paesi del Nord si rivaluterebbe almeno del 40%, mettendo fuori mercato interi settori industriali. La disoccupazione crescerebbe e con essa l’instabilità sociale.

Ipotizzando di prendere a esempio le vicende del peso argentino subito dopo il disallineamento dalla parità virtuale imposta rispetto al dollaro (più o meno quello che succederebbe tra Italia e Germania), la lira cercherebbe immediatamente il proprio reale punto di equilibrio. La prime conseguenze sarebbero, nello scenario peggiore tra i peggiori, il raddoppio del prezzo di tutti i beni importati. Il carburante in ventiquattro ore passerebbe a quasi tre euro. Telefonini, automobili straniere, elettricità, gas dalla Libia, computer dalla Corea e Ipad raddoppierebbero il costo. Ci troveremmo a pagare il doppio i pezzi di ricambio delle auto straniere in garage. Su anche i prezzi degli alimentari. Dall’oggi al domani gli stipendi perderebbero potere di acquisto di un 30% almeno.

Il lato positivo è che il debito pubblico italiano si svaluterebbe all’improvviso e ci troveremmo in una situazione già conosciuta in passato: avendo, a parità di livello tecnologico, un costo del lavoro più basso di quello dei concorrenti, l’Italia sarebbe un temibile avversario economico.  Nessuno più acquisterebbe Bmw o altre auto tedesche. Mentre a Berlino si farebbe la fila per le Fiat e le Alfa.

Infine, se la svalutazione interna viaggiasse sulle stesse percentuali, sarebbe una benedizione per lo Stato spendaccione ma una vera e sonora  fregatura per tutti quegli italiani che hanno accumulato risparmi nel corso degli anni. Chi oggi ha 100 mila euro è come se si ritrovasse improvvisamente con 30, 40 mila euro in meno.

C’è poi un altro scenario possibile, più fantasioso: il default pilotato. Ovvero lo Stato taglia i debiti e non  rimborsa più una percentuale o taluni creditori. Quasi il 40% del nostro debito è in mano agli stranieri. Se l’Italia dichiarasse default, rimborsando solo gli italiani possessori di titoli non gli stranieri (francesi, tedeschi, ecc) risolverebbe in un colpo gran parte dei problemi. Si troverebbe con il 40% di debito in meno, una moneta svalutata e la possibilità di tagliare drasticamente le tasse (s’intende riformando la spesa). L’Italia volerebbe, insomma, se solo prima non venisse letteralmente invasa  dai carri armati degli ex alleati...!

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Fonte: Ansa.it

domenica 24 giugno 2012

Accordo sulla crescita


 
L'accordo per la crescita c'é: un pacchetto da 130 miliardi, pari all'1% del Pil europeo, per far ripartire l'Europa. E preparare il terreno per dare, al prossimo consiglio europeo, quei segnali "concreti" in grado di far capire ai mercati che "l'Euro c'é e intende continuare ad esserci" perché quello della moneta unica europea è un progetto "irreversibile". Dalla quadrilaterale di Roma tra Monti, Merkel, Hollande e Rajoy, un segnale dunque è arrivato, se non altro un segnale di unità, insieme alla volontà dei quattro leader di Italia, Germania, Francia e Spagna di andare avanti sulla Tobin Tax, chiedendo che al prossimo summit a Bruxelles venga approvata "attraverso la cooperazione rafforzata", dunque, anche senza la recalcitrante Gran Bretagna. 

Questo non significa certo che siano stati superati tutti gli scogli. Tutt'altro. Certamente più conciliante e sorridente del solito, la Merkel - pur dando il suo via libera al pacchetto per la crescita - ha comunque ribadito tutti i suoi paletti, ribattendo prontamente ad ogni riferimento alla linea del rigore scelta da Berlino. "Si possono cedere porzioni di sovranità nazionale solo se ci sarà più solidarietà in Europa", ha rintuzzato Hollande rispondendo all'appello ad una più forte unione politica lanciato dalla Cancelliera. "Dove c'é solidarietà servono anche controlli", perché in passato "le regole non sono state rispettate", è stata la pronta replica della Merkel, che è tornata a ribadire come "crescita e finanze solide sono i due lati della stessa medaglia". E ancora, Frau Merkel non ha nascosto la sua contrarietà all'uso dei fondi salva Stati per ricapitalizzare le banche. "Secondo i trattati non è possibile - ha detto - e i trattati vanno rispettati". Frase quest'ultima indubbiamente rivolta anche alla proposta di Monti sull'uso di Efsf-Esm per creare uno scudo anti-spread. Proposta che ha ottenuto il pieno appoggio della Francia, mentre la cancelliera ha glissato in pubblico, tornando a ribadire che i meccanismi per garantire la stabilità esistono già.

L'importanza delle regole è stata sottolineata dallo stesso Monti, che però ha tenuto a ricordare che nel 2003 furono Francia e Germania, con la "complicità " dell'Italia, ad essere autorizzati a deragliare dalle regole europee. "Ci abbiamo messo dieci anni per ricostruire una credibilità europea. Ecco l'importanza delle regole". 

Insomma le distanze rimangono, ma anche la paura dei mercati. Per questo un messaggio è stato unanime: l'euro non si tocca. "E' un progetto irreversibile", ha detto Monti. "Intendiamo lottare per mantenere la nostra moneta", gli ha fatto eco la Merkel. Per questo Italia, Germania, Francia e Spagna si presenteranno al consiglio europeo del 28-29 giugno con l'accordo sul pacchetto per la crescita. Un pacchetto da 130 miliardi che ricalca quello proposto nella lettera che Hollande ha recapitato nei giorni scorsi alle cancellerie europee, e che puntava a reperire una cifra pari all'1% del pil europeo in parte dai fondi strutturali inutilizzati (55mld), in parte attraverso la Bei, che potrebbe raccogliere sui mercati fino a 60 miliardi grazie al suo potenziamento, e in parte dai famosi project bond (4,5-5 miliardi). Quel che è certo è che di obbligazioni europee, di qualunque genere, oggi non si è parlato, fatta eccezione per un accenno di Hollande ("gli eurobond devono rimanere una prospettiva, e non a 10 anni"). 

L'accordo di Roma al momento ha raccolto una reazione tiepida dal presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy - "ogni incontro che possa dare una spinta verso il consenso nel vertice della prossima settimana è utile" - mentre per il premier belga Elio di Rupo "é un inizio", ma non basta

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Fonte: Ansa.it

venerdì 8 giugno 2012

...Fuga da Wall Street?



L’Ipo più attesa del decennio doveva riaccendere l’amore degli investitori per Wall Street, invece le ha dato un altro colpo. Il debutto in Borsa di Facebook con una valutazione superiore ai 100 miliardi di dollari ha bruciato quel po’ di fiducia rimasta nel mercato azionario americano, soprattutto dopo la rivelazione che alcune banche d’affari curatrici dell’offerta pubblica davano in privato, solo ai clienti privilegiati, un parere meno entusiasta sulle sue prospettive.

La delusione per il flop di Facebook - le cui quotazioni sono crollate di quasi un quarto nei primi cinque giorni di scambi - ha spinto ancora più risparmiatori ad abbandonare la Borsa: i riscatti dai fondi azionari Usa hanno raggiunto i 3 miliardi di dollari nella settimana dell’Ipo di Facebook, il dato peggiore degli ultimi mesi. E la perdita del 6,2% dell’indice Dow Jones in maggio non migliora l’umore del mercato.
«Le azioni sono morte?», si è chiesto il Financial Times in prima pagina. E la domanda è rimbalzata sulle piazze finanziarie di qua e di là dell’Atlantico. La risposta unanime è che a morire è stato il culto delle azioni, perché nessuno sembra più credere alle statistiche per cui la Borsa nel lungo termine rende più delle obbligazioni. Non importa se dal 1900 al 2010 le azioni americane hanno battuto l’inflazione di 6,3 punti percentuali l’anno contro l’1,8 offerto dai bond, come mostra uno studio della London business school citato dal FT. Così oggi i risparmiatori corrono a comprare i titoli di Stato Usa decennali che rendono l’1,5%, cioè meno del tasso d’inflazione (2,3%) e meno del 2% di rendimento medio delle azioni (il rapporto fra dividendo e prezzo).

Non c’è accordo invece su che cosa può succedere d’ora in poi: secondo alcuni questo disamoramento di massa per Wall Street sarebbe un segnale contrarian, l’indicazione dell’imminente partenza di un nuovo grande rally azionario; secondo altri l’attuale clima andrà avanti a lungo a causa di fattori indipendenti dalla Borsa, in particolare per la repressione finanziaria esercitata dai governi e per le dinamiche demografiche.

La fuga da Wall Street è in atto già da tempo: dal 2006 a oggi i fondi azionari americani hanno perso 473 miliardi di dollari (saldo netto fra sottoscrizioni e riscatti), mentre quelli obbligazionari hanno incassato 1.042 miliardi netti. La fiducia nella correttezza ed efficienza del mercato è stata scossa nell’ultimo decennio dallo scoppio di due grandi Bolle, quella delle dot.com nel 2000 e quella immobiliare nel 2007-2008; due crolli di Borsa superiori al 50% e da una serie di scandali e bancarotte aziendali impressionanti, dalla Enron nell’ottobre 2001 alla Lehman Brother nel 2008, per citarne solo due. Non stupisce allora sapere che la quota delle famiglie americane con investimenti in azioni diretti o indiretti (attraverso fondi o altri prodotti) è scesa dal 53% nel 2001 al 46,4% nel 2011 secondo l’ultimo sondaggio dell’Investment company institute, l’associazione dei gestori di fondi Usa; e oggi solo il 15% degli americani si fida di Wall Street, secondo l’Indice della fiducia finanziaria elaborato dalle scuole di business Chicago Booth/Kellog.
E non è una tendenza in atto solo fra i risparmiatori. Anche gli investitori istituzionali hanno ridimensionato drasticamente il loro portafoglio azionario: era fino al 70% del patrimonio dei fondi pensione americani e britannici dieci anni fa, ora è attorno al 40% in Gran Bretagna e poco sopra il 50% negli Usa. Su di loro pesa non solo la paura di non raggiungere gli obbiettivi di rendimento prefissati, ma anche la pressione delle autorità politiche e monetarie a investire in titoli emessi dai governi, che hanno disperato bisogno di finanziare i loro crescenti debiti.

Gli ottimisti fanno notare che «La morte delle azioni» era stata annunciata già 33 anni fa, sulla copertina di BusinessWeek del 13 agosto ’79: poco dopo sarebbe partito un formidabile rialzo durato 20 anni, con rendimenti annui composti del 17,5% negli Anni ’80 e del 18,2% nei ’90.
Auspicano quindi che il fenomeno si ripeta…
 
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Fonte: CorriereEconomia

giovedì 7 giugno 2012

Europe's crisis can't be solved by austerity



Fiscal profligacy did not cause the sovereign debt crisis engulfing Europe, and fiscal austerity will not solve it. On the contrary, such austerity has aggravated the crisis and now threatens to bring down the euro and throw the global economy into another tailspin.

In 2007, Spain and Ireland were models of fiscal rectitude, with far lower debt-to-GDP ratios than Germany had. Investors were not worried about default risk on Spanish or Irish sovereign debt, or about Italy's chronically large sovereign debt. Indeed, Italy boasted the lowest deficit-to-GDP ratio in the eurozone, and the Italian government had no problem refinancing at attractive interest rates. Even Greece, despite its rapidly eroding competitiveness and increasingly unsustainable fiscal path, could attract the capital that it needed.

Deluded by the convergence of bond yields that followed the euro's launch, investors fed a decade-long private-sector credit boom in Europe's less developed periphery countries, and failed to recognize real-estate bubbles in Spain and Ireland, and Greece's slide into insolvency. When growth slowed sharply and credit flows collapsed in the wake of the Great Recession, budget revenues plummeted, governments were forced to socialise private-sector liabilities, and fiscal deficits and debt soared.

With the exception of Greece, the deterioration in public finances was a symptom of the crisis, not its cause. Moreover, the deterioration was predictable: history shows that the real stock of government debt explodes in the wake of recessions caused by financial crises.

But austerity is not working; indeed, it is counterproductive. In the short to medium term, fiscal consolidation – whether in the form of cutting government spending or increasing revenues – results in lower output and employment, which means lower tax collection, higher deficits, and escalating debt relative to GDP. Savvy investors, like frustrated voters, recognize that low growth and high unemployment actually enlarge deficits and add to debt in the short run. That is why, after more than two years, interest rates are rising, not falling, in countries crushed by onerous austerity measures.

Greece is caught in a classic debt trap, as the interest rate on its public debt has soared beyond its growth rate by a considerable margin; Spain is teetering on the brink. Austerity in Europe has confirmed the International Monetary Fund's warning that overdoing fiscal consolidation weakens economic activity, undermines market confidence, and diminishes popular support for adjustment.

In the long run, many eurozone countries, including Germany, require fiscal consolidation in order to stabilise and reduce their debt-to-GDP ratios. But the process should be gradual and backloaded – with much of the consolidation coming after Europe's economies have returned to a sustainable growth path.

Italian prime minister Mario Monti and French president François Hollande are right: Europe needs bold, co-ordinated policies to promote growth, along with market-based structural reforms to foster competition and an easing of fiscal targets until output and employment recover.

But how can significant new growth initiatives be financed? The reality is that the rest of Europe cannot succeed in restoring growth without Germany, and Germany remains wedded to the austerity cure.

With a modest fiscal deficit, record-low borrowing costs, and a huge current-account surplus, Germany has the financial firepower to unleash a significant stimulus.

Despite pleas from the IMF and the OECD, Germany also remains implacably opposed to eurobonds, which could ease the funding constraints of other eurozone members and bolster the resources of the European Stability Mechanism, which currently does not provide a credible firewall against a run on Spanish or Italian sovereign debt – or on the European banks that hold it. Indeed, the worsening banking crisis, with deposits fleeing from the eurozone periphery, is further strangling Europe's growth prospects.

It is probably too late to save Greece. But a shift toward policies to promote growth, supported by the easing of deficit targets and the issuance of eurobonds, is essential to bring Europe back from the brink of sustained recession, to stabilise Europe's financial markets, and to prevent another significant disruption to global capital markets.


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Fonte: Theguardian

mercoledì 6 giugno 2012

Bankitalia, le tre parole chiave sulla crisi




Questo lo scenario a tinte cupe delineato dal Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, che in occasione delle sue prime considerazioni finali si è concentrato sullo stato di salute delle banche e dello Stato italiano.

Ecco le sue tre principali proposte.

Diminuire la pressione fiscale.
Sul fronte del risanamento dei conti, pur tessendo le lodi all’azione finora svolta dall’attuale esecutivo, Visco ha ricordato che "si è pagato il prezzo di un innalzamento della pressione fiscale a livelli oramai non compatibili con una crescita sostenuta". E che tale l'inasprimento "non può che essere temporaneo". La sfida ora si sposta su un altro piano: "Occorre trovare oltre a più ampi recuperi di evasione, tagli di spesa che compensino il necessario ridimensionamento del peso fiscale". Se accuratamente identificati e ispirati a criteri di equità, ha aggiunto il numero uno di Palazzo Koch, "i tagli non comprometteranno la crescita" e "potranno concorrere a stimolarla se saranno volti a rimuovere inefficienze dell'azione pubblica, semplificare i processi decisionali, contenere gli oneri amministrativi". Del resto, ha sottolineato, i margini disponibili per ridurre il debito "anche con la dismissione di attività in mano pubblica", vanno utilizzati pienamente.

Banche: più controlli dei rischi.
Gli istituti di credito italiani devono cambiare l’attuale modello di crescita della redditività e devono intervenire "sul costo del lavoro", le "remunerazioni" dei vertici, la rete delle filiali e il numero dei componenti dei cda che nei primi 10 gruppi vede ben 1.136 cariche. Inoltre, il Governatore ha chiesto un "un più attento controllo dei rischi" da parte delle banche, che impone anche "profitti più bassi ma più stabili di quelli del decennio precedente alla crisi", ricordando però il forte sostegno dato dagli istituti al debito sovrano italiano: gli acquisti netti dei titoli di Stato nei primi 3 mesi 2012, infatti, sono stati pari a 70 miliardi di euro.

Riforme.
Il paese, ha detto Visco, non può chiedere uno sforzo finanziario aggiuntivo ai suoi imprenditori, senza che venga a loro assicurata "una semplificazione dell'ambiente normativo in cui operano". Su questo fronte il Governatore di Bankitalia ha rilanciato il tema delle riforme strutturali, necessarie per rimettere in moto il Paese e il cui percorso va proseguito "con energia accresciuta e visione ampia", soprattutto nei settori dell'istruzione, della giustizia e della sanità.

Dunque... Inutile farsi troppe illusioni: per l'Italia il 2012 non potrà che concludersi sotto il segno della recessione, con una caduta del Pil contenuta intorno all'1,5%, mentre l’Eurozona, per salvarsi, dovrà mostrare la volonta "irremovibile" di preservare la moneta unica. 

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Fonte: Panorama.it